Nell’ultimo numero di Internazionale abbiamo pubblicato un articolo di Arwa Mahdawi intitolato Rompere il silenzio su Gaza. Nel pezzo Mahdawi si chiede: “Quando le generazioni future leggeranno di Gaza con orrore e si chiederanno come il mondo occidentale, forte della sua superiorità morale, del suo ordine basato sulle regole e della sua attenzione per il diritto umanitario, abbia permesso un genocidio in diretta, cosa direte?”.
Questa domanda riguarda tutti, nessuno escluso. Per questo anche nel mondo della musica occidentale da mesi è in corso a più livelli un dibattito su quello che gli artisti dovrebbero fare o non fare di fronte alle atrocità commesse in Medio Oriente. Uno degli ultimi casi in ordine di tempo è quello del festival Sónar, in programma dal 12 al 14 giugno a Barcellona: il 23 maggio diversi artisti hanno scritto una lettera aperta agli organizzatori annunciando un boicottaggio a causa della presenza tra i finanziatori della manifestazione della Kkr, una società della finanza statunitense accusata di aver fatto investimenti in aziende coinvolte negli insediamenti illegali nei territori palestinesi e nella produzione di armi. Più di cinquanta artisti che avrebbero dovuto partecipare al Sónar hanno cancellato la loro partecipazione.
Il festival ha risposto con un comunicato ufficiale in cui condannava “il genocidio del popolo palestinese”, dichiarando che nessun euro incassato dall’evento sarebbe finito nelle casse della Kkr, ma a molti appassionati questa presa di posizione è sembrata tardiva e insufficiente. Anche la Boiler Room, famosa piattaforma che ospita dj set ed esibizioni in diretta video su YouTube, è stata criticata pesantemente per il fatto che la Kkr figura tra i suoi investitori.
Nel Regno Unito gli appelli al boicottaggio della Kkr vanno avanti da mesi. A fine aprile un gruppo di artisti guidato da Brian Eno, Massive Attack e Ben Ufo ha chiesto al festival Field Day di prendere le distanze dalla Kkr, finanziatrice anche di questo evento che si tiene ogni anno a Londra. In questo momento storico i festival si trovano davanti a un bivio: adattarsi a richieste di maggiore responsabilità etica o affrontare un deterioramento dell’immagine pubblica e la perdita di credibilità tra artisti e pubblico.
Insieme a Roger Waters, che di frequente si è espresso con toni molto aspri e polemici, i Massive Attack si confermano tra gli artisti più attivi sulla questione palestinese. Il 29 maggio la band di Robert Del Naja ha firmato un appello promosso dall’organizzazione umanitaria Choose Love per chiedere al governo britannico d’interrompere la vendita di armi a Israele. La lettera è stata firmata anche da Dua Lipa, Annie Lennox, Primal Scream e molti altri musicisti.
I musicisti irlandesi e nordirlandesi sono tra i più convinti nell’esprimere sostegno al popolo palestinese: i Fontaines D.C. nel 2023 hanno registrato un ep insieme agli Young Fathers per raccogliere fondi in favore delle vittime a Gaza e hanno continuato a occuparsi del tema, così come il gruppo folk Lankum, che nel 2024 a Glastonbury ha suonato The rocks of Palestine, una rielaborazione del brano folk The rocks of Bawn. Il mese scorso i Kneecap, trio rap di Belfast, sono finiti al centro delle polemiche dopo che al festival Coachella hanno preso posizione sulla questione palestinese. Le cose hanno preso una piega tale che la polizia britannica ha aperto un’indagine sul gruppo, accusato anche di aver inneggiato ad Hamas.
Se alcuni artisti ci hanno messo la faccia, altri (la maggior parte) sono rimasti in silenzio. Alcuni fan di Bruce Springsteen e Taylor Swift hanno chiesto ai loro idoli di far sentire la propria voce in sostegno a Gaza, ma finora non è successo, anche se va detto che entrambi, in particolare il Boss, di solito preferiscono esporsi su questioni che riguardano il loro paese, gli Stati Uniti. Dopo mesi di silenzio, invece, di recente ha parlato il leader degli U2 Bono. Il cantante, in un messaggio molto più moderato rispetto a quello dei colleghi sopracitati, ha dichiarato: “Hamas, libera gli ostaggi, ferma la guerra. Israele, liberati da Benjamin Netanyahu e dai fondamentalisti di estrema destra che distorcono i tuoi testi sacri. Proteggete tutti i nostri operatori umanitari, sono i migliori tra noi”.
Diversa, e più complessa, è la questione legata al leader dei Radiohead e degli Smile Thom Yorke. Nonostante i ripetuti appelli di alcuni fan, negli ultimi due anni Yorke non si era mai espresso sulla situazione di Gaza. Il 30 ottobre a Melbourne, in Australia, mentre stava tenendo un concerto solista, il cantante è stato interrotto da un contestatore in mezzo al pubblico. In un video girato sul posto si sentiva un uomo che urlava a Yorke: “Come hai potuto tacere?”, riferendosi secondo diverse testimonianze al bilancio delle vittime della guerra a Gaza. Yorke si è rivolto allo spettatore e gli ha detto: “Sali su quel cazzo di palco e di’ quello che vuoi dire. Non stare lì come un codardo. Vieni qui e dillo”. E poi ha continuato: “Vuoi rovinare la serata a tutti? Dai. Ok, fallo, ci vediamo dopo”. L’artista ha lasciato il palco, ma è tornato per suonare Karma police.
Subito dopo il concerto di Melbourne molti si aspettavano un chiarimento, e invece niente. Il 30 maggio, finalmente, Thom Yorke ha pubblicato un messaggio sulla sua pagina Instagram (qui trovate il testo completo), in cui sostanzialmente ha detto quello che ha detto Bono, seppur in modo più articolato.
Da un lato ha fatto un appello a fermare “Netanyahu e la sua banda di estremisti” la cui “scusa dell’autodifesa è ormai da tempo inefficace ed è stata sostituita da un desiderio evidente di prendere il controllo di Gaza e della Cisgiordania in modo permanente”. Dall’altro ha fatto riferimento a Hamas: “Allo stesso tempo, l’incondizionato ritornello ‘Free Palestine’ che ci circonda non risponde alla semplice domanda: perché gli ostaggi non sono ancora stati restituiti? Perché Hamas ha scelto di commettere gli atti orribili del 7 ottobre? La risposta sembra ovvia, e credo che anche Hamas scelga di nascondersi dietro la sofferenza del suo popolo, in modo altrettanto cinico, per i suoi obiettivi”, ha scritto Yorke, prima di scagliarsi contro la “polarizzazione” creata dai social network, che a suo parere “distrugge la speranza e tiene in piedi un senso d’isolamento, le stesse cose che gli estremisti usano per mantenere la loro posizione”.
Nessun riferimento alla parola genocidio, come fatto invece da Massive Attack e altri artisti in varie occasioni. Un messaggio dai toni moderati, molto diverso da quelli pronunciati fino a oggi da Yorke riguardo ad altre questioni politiche e sociali, dai cambiamenti climatici alla Brexit, dalla guerra in Iraq alla questione tibetana.
I musicisti, ovviamente, non sono costretti a esprimersi su Gaza, né su nessun altro tema. Ed è sbagliato pretendere a tutti i costi che lo facciano. Rileggendo queste dichiarazioni, però, mi è tornato in mente un altro passaggio dell’articolo di Arwa Mahdawi che abbiamo messo in copertina: “Quello che sta succedendo a Gaza è diverso dagli orrori che si stanno compiendo in Sudan e nella Repubblica Democratica del Congo perché, se siete in occidente, sta succedendo a vostro nome. Sta succedendo con i vostri soldi e con l’aiuto dei vostri leader. Siamo tutti complici. Anche se alcuni di noi lo sono molto più di altri”. Il pezzo di Mahdawi si conclude con una citazione: “Come disse Martin Luther King Jr: ‘Alla fine, non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici’”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Musicale.
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