15 aprile 2020 12:39

I prossimi mesi saranno segnati dai tristi dati sulla diffusione del Sars-cov-2, ma per molti arriverà anche la gioia del ritorno a casa. I pazienti ricoverati con sintomi gravi e successivamente dimessi potranno finalmente ricominciare a vivere, in alcuni casi dopo aver trascorso settimane attaccati a un respiratore artificiale. Tuttavia è probabile che molti di loro dovranno affrontare le conseguenze del virus e delle cure d’emergenza che li hanno salvati.

“Il problema principale nei prossimi mesi sarà come aiutare queste persone a riprendersi”, dice Lauren Ferrante, pneumologa di terapia intensiva della facoltà di medicina di Yale. Le tecniche per mantenere il paziente più lucido e mobile possibile, anche nella fase acuta della malattia, potrebbero migliorare la ripresa a lungo termine, ma molti medici di terapia intensiva riferiscono che la forte pressione sugli ospedali dovuta alla pandemia e la natura estremamente contagiosa della malattia complicano il ricorso a queste tecniche.

Il covid-19 porta in terapia intensiva anche persone giovani e senza patologie pregresse, ma gli anziani restano i più esposti al rischio di sviluppare sintomi gravi e invalidità a lungo termine, spiega Sharon Inouye, geriatra del sistema di assistenza Hebrew SeniorLife della facoltà di medicina di Harvard. “C’è voluto molto tempo per mettere a punto le strategie più adatte per l’assistenza geriatrica negli ospedali e nelle terapie intensive. Ora la crisi ha minato questo progresso”.

Nuove patologie
L’attacco portato dal Sars-cov-2 all’organismo è particolarmente esteso. Il virus colpisce direttamente i polmoni, ma la mancanza di ossigeno e l’infiammazione diffusa possono danneggiare anche i reni, il fegato, il cuore, il cervello e altri organi. Al momento è troppo presto per prevedere quali saranno le conseguenze a lungo termine della malattia sui sopravvissuti, ma gli studi sulla polmonite grave, un’infezione che colpisce gli alveoli esattamente come fa il covid-19, forniscono degli indizi. Alcune di queste infezioni producono una Sindrome da distress respiratorio acuto (Ards), in cui le cavità alveolari si riempiono di liquido. A volte questa condizione causa delle lesioni che possono portare a problemi respiratori a lungo termine, spiega Ferrante, ma diversi studi indicano che la maggior parte dei pazienti colpiti da Ards recupera la piena funzionalità polmonare.

Dopo un caso grave di polmonite, una combinazione tra malattie croniche concomitanti e prolungata infiammazione sembra aumentare il rischio di sviluppare nuove patologie, tra cui infarto, ictus e insufficienza renale, spiega Sachin Yend, epidemiologo e medico di terapia intensiva dell’università di Pittsburgh. Nel 2015, per esempio, l’équipe di Yende ha osservato che i pazienti colpiti da polmonite presentavano un rischio di malattie cardiache quattro volte superiore alla norma nel primo anno dopo la dimissione dall’ospedale, e 1,5 volte più alto in ognuno dei nove anni successivi. Il covid-19 potrebbe provocare “un forte aumento di questo tipo di eventi”, ipotizza l’epidemiologo.

Alcuni pazienti colpiti dal Sars-cov-2 sono rimasti attaccati ai sistemi di supporto vitale per più di due settimane

A prescindere dalla patologia da cui sono affetti, i pazienti ricoverati in terapia intensiva tendono inoltre a presentare, dopo la dimissione, una serie di problematiche fisiche, cognitive e mentali conosciute come sindrome da cure post-intensive. Per i pazienti dimessi dalla terapia intensiva, il Sars-cov-2 potrebbe comportare il rischio di sviluppare alcune di queste problematiche, spiega Dale Needham, medico di terapia intensiva della facoltà di medicina dell’università John Hopkins. Una delle ragioni dietro questo fenomeno è il danno eccezionale arrecato dal virus ai polmoni, che costringe molti pazienti a usare la respirazione artificiale per un periodo prolungato e ad assumere potenti sedativi. Secondo Needham un paziente con Ards causata da altre malattie può avere bisogno dei ventilatori polmonari per 7-10 giorni, mentre alcuni pazienti colpiti dal Sars-cov-2 sono rimasti attaccati ai sistemi di supporto vitale per più di due settimane.

Tasso di sopravvivenza
Molti pazienti affetti da covid-19 che hanno bisogno della ventilazione artificiale non si riprendono mai. I tassi di sopravvivenza variano da un paese all’altro e da uno studio all’altro, ma in ogni caso un rapporto dell’Intensive care national audit & research centre di Londra ha stabilito che i pazienti per cui è stato necessario “un supporto respiratorio avanzato” in Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord sono deceduti nel 67 per cento dei casi, mentre uno studio simile effettuato in Cina su un gruppo ridotto di pazienti ha riscontrato un tasso di sopravvivenza di appena il 14 per cento nei casi di ricorso ai respiratori artificiali.

Le persone che sopravvivono a un lungo periodo di respirazione assistita tendono a sviluppare atrofie e debolezza muscolare. Mantenere la mobilità di un paziente in condizioni critiche – muovendogli le braccia e le gambe e se possibile aiutandolo a sedersi, alzarsi in piedi e camminare – può ridurre questa debolezza e anticipare il momento del distacco dal respiratore. Ma considerando l’estrema contagiosità del Sars-cov-2 portare un fisioterapista nelle stanze dei malati può essere complicato, spiega Needham.

L’infiammazione in tutto il corpo causata dal virus può limitare l’afflusso di sangue al cervello, uccidendo alcune cellule cerebrali

Nella terapia intensiva di Needham, alla Johns Hopkins, i fisioterapisti indossano tute protettive per mantenere la mobilità dei pazienti attaccati ai respiratori. Tuttavia Ferrante riferisce che in molti grandi ospedali, incluso il suo, la carenza di attrezzature ha impedito ai fisioterapisti di lavorare con i pazienti affetti da covid-19. Anche quando le condizioni dei pazienti migliorano abbastanza da autorizzarne la dimissione dalla terapia intensiva o dall’ospedale, molti hanno ancora il virus nell’organismo e devono aspettare la completa guarigione per ricevere cure domiciliari o andare in una struttura per la fisioterapia.

Sedativi e psicofarmaci
Un altro rischio a cui sono esposti i pazienti ospedalizzati è il delirium, o delirio, uno stato confusionale che può causare disturbi cognitivi a lungo termine come i deficit di memoria. “Analizzando i casi di covid-19 riscontriamo molti episodi di delirio”, conferma E. Wesley Ely, pneumologo di terapia intensiva dell’università di Vanderbild, la cui équipe si prepara a pubblicare i risultati delle ricerche compiute. Secondo Ely, il virus stesso è parzialmente responsabile di questo fenomeno. Lo pneumologo sospetta che il Sars-cov-2, come i virus che provocano la Sindrome respiratoria acuta grave (Sars) e la Sindrome respiratoria mediorientale (Mers), possa danneggiare direttamente il cervello. Inoltre l’infiammazione in tutto il corpo causata dal virus può limitare l’afflusso di sangue al cervello, uccidendo alcune cellule cerebrali.

A peggiorare la situazione c’è il fatto che i medici, di solito, prescrivono sedativi per fermare la tosse violenta e aiutare i pazienti a sopportare il disagio dell’intubazione. Secondo Ely, questi farmaci possono aumentare il rischio di delirio. Inoltre gli ospedali, una volta terminate le scorte dei sedativi più comuni, spesso sono costretti a somministrare le benzodiazepine, una classe di farmaci che può provocare “delirio intenso e prolungato”.

“All’inizio ero furiosa quando ho sentito parlare del razionamento dei ventilatori per gli anziani”

Negli ultimi vent’anni Ely e i suoi colleghi hanno messo a punto una lista di pratiche da seguire per migliorare il decorso dei pazienti, attualmente adottata da molte terapie intensive. Tra le priorità inserite in questa lista ci sono la sospensione quotidiana dei narcotici e dei sedativi, e una riduzione della pressione del respiratore per verificare se il paziente può svegliarsi, respirare e tollerarlo senza assumere farmaci (se non è possibile, il medico è sollecitato a riprendere la somministrazione in dosi ridotte).

Tuttavia si tratta di pratiche che richiedono un monitoraggio costante, e nelle terapie intensive travolte dalla pandemia di covid-19 “penso che vengano saltate”, dice Eli. “So bene che tutti stanno facendo del loro meglio, ma sarebbe bene non accantonare ciò che abbiamo imparato negli ultimi vent’anni”.

Contatti rassicuranti
La minaccia del contagio ha limitato le interazioni che possono aiutare i pazienti a mantenere la calma e a ridurre il bisogno di farmaci che possono portare al delirio. “Se si potesse creare il sistema peggiore per curare gli anziani sicuramente sarebbe un sistema in cui nessuno può entrare nella stanza, le visite dei familiari non sono autorizzate e i sanitari indossano maschere e tute protettive, assumendo un aspetto spaventoso”, sottolinea Inouye. I medici sono costretti a sedare e immobilizzare i pazienti agitati per impedire che si strappino le flebo o i tubi respiratori, “eppure mi chiedo se non dovremmo prenderci due minuti di tempo per cercare di calmarli e permettere che qualcuno, indossando maschera e guanti, possa tenerli per mano e accarezzargli le braccia”.

I primi resoconti dalle terapie intensive sopraffatte dai malati di covid-19 suggerivano che fosse consigliabile intubare i pazienti nella prima fase della malattia, ricorda C. Terri Hough, pneumologa di terapia intensiva dell’università di Washington a Seattle. “È stato l’approccio che abbiamo adottato con i primi pazienti”. L’idea era che una terapia meno invasiva (per esempio immettendo un forte flusso di ossigeno nel naso) avrebbe disperso le particelle virali del paziente nell’aria, aumentando il rischio di contagio per gli altri. Inoltre, se le condizioni del soggetto si fossero improvvisamente aggravate, i medici sarebbero stati costretti a un’intubazione di emergenza, più rischiosa.

Ma presto l’équipe di Hough ha realizzato quali fossero “gli inconvenienti dell’intubazione anticipata”. Ora la pneumologa e i suoi colleghi stanno cercando di distinguere tra i diversi sottotipi d’insufficienza respiratoria nei pazienti affetti da covid-19, per stabilire meglio chi (e quando) ha bisogno dei respiratori artificiali. “Man mano che comprendiamo meglio la malattia stiamo cambiando il nostro comportamento”, spiega Hough. “Attaccando ai respiratori più pazienti del necessario arrecheremmo un danno alla salute dopo la ripresa”.

La scarsa probabilità di sopravvivenza e il rischio di complicanze a lungo termine danno luogo a conversazioni dolorose tra pazienti, familiari e operatori sanitari. “All’inizio ero furiosa quando ho sentito parlare del razionamento dei ventilatori per gli anziani”, racconta Inouye. Ma poco tempo dopo alcuni contagi di covid-19 sono emersi nella casa di riposo dove vive sua madre, di 91 anni. Inouye e la sorella hanno informato il personale che la madre non avrebbe voluto essere attaccata a un respiratore se si fosse ammalata e la sua probabilità di sopravvivenza fosse stata scarsa (la struttura non registra nuovi contagi da 14 giorni). “Dopo aver preso quella decisione, e tenendo conto della carenza di respiratori, ho capito che bisogna valutare caso per caso. Dobbiamo considerare i desideri del paziente e dei familiari”, spiega.

Scarabeo e sudoku
Mentre gli ospedali faticano a gestire l’attuale ondata di contagi, i ricercatori cercano di guardare al futuro. L’équipe di Ely sta sperimentando un programma di riabilitazione con l’utilizzo di tablet per le persone con danni cognitivi dovuti al ricovero in condizioni critiche. Per Ely si tratta di una specie di “scarabeo-sudoku iperpotenziato”. La squadra di Yende sta invece provando nuove strategie per i pazienti dimessi dopo aver avuto polmoniti e infezioni, con un monitoraggio attraverso computer e smartphone, e visite a domicilio o cure in remoto, nella speranza di evitare un nuovo ricovero.

Altri si preparano all’aumento dei disturbi mentali causati dall’elevato stress dovuto a una malattia grave, tra cui ansia, depressione e stress post-traumatico. Uno studio sui pazienti affetti da Sars ha riscontrato che un anno dopo la dimissione un terzo dei soggetti presentava sintomi moderati o gravi di depressione. Hough e i suoi collaboratori stanno testando un’applicazione che promuove la mindfulness e la capacità di reazione dei pazienti dimessi dall’ospedale per superare le conseguenze della degenza.

Secondo Hough l’emergenza globale potrebbe favorire un sistema di supporto più solido per le persone sopravvissute alle malattie gravi. “La solidarietà creata dall’emergenza potrebbe portare la speranza dove prima non c’era”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sulla rivista scientifica statunitense Science.
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