15 marzo 2017 14:57

“Quando torni dalla Tunisia?”. Ho capito che qualcosa non andava quando mia sorella ha chiesto di parlare con me al telefono. Da quando ero partito per la Tunisia, il 19 febbraio, a Tripoli c’erano stati violenti scontri. Avevo programmato di restarci per qualche giorno per un lavoro, ma subito dopo la partenza ho temuto che si sarebbe scatenato l’inferno: tutti gli indicatori puntavano in quella direzione e io sapevo che era solo una questione di tempo.

Poiché non volevo restare tagliato fuori da Tripoli, avevo aspettato a partire che fosse passato l’anniversario della prima rivoluzione libica, il 17 febbraio. Avevo ragione sull’inferno, ma torto sulla tempistica: le milizie hanno aspettato che atterrassi in Tunisia per cominciare la loro guerra, prima contenuta, poi intensificata nel giro di pochi giorni. Ho contattato i miei familiari e mi hanno assicurato di non essere sotto tiro, anche se sentivano il rumore degli scontri avvicinarsi ogni giorno di più.

“Cos’è successo? Va tutto bene?”, ho chiesto, sperando che non fosse successo niente, per quanto buffo potesse apparire il mio desiderio, date le circostanze.

“Non farti prendere dal panico, va tutto bene… Tuo padre è in ospedale. Volevo che lo sapessi prima di tornare, perché la casa è piena di gente venuta per sapere come sta”.

Mi ha spiegato che aveva avuto un leggero malore; lo avevano portato in ospedale, dove gli avevano detto che aveva bisogno di un piccolo intervento, ma che le sue condizioni erano stabili.

Pagare prima della cura
Stabili significa che non era in forma. Mia sorella minore è un’odontotecnica e anche se l’anno scorso ho intervistato i suoi professori e il suo rettore per un reportage sulla sua cerimonia di laurea, ancora non ho capito bene cosa facciano.

Abbiamo finito il lavoro in Tunisia dopo aver superato qualche ostacolo. Ho preso l’aereo per tornare a casa e da quando ho lasciato l’aeroporto di Tripoli, Mitiga, alle 23, la sinfonia della distruzione non si è mai placata, nemmeno per un momento. Quando ho incontrato la mia famiglia, in sottofondo si sentiva il rombo dei cannoni antiaerei e delle esplosioni. Ho messo via i bagagli e mi sono informato sulle condizioni di salute di mio padre. Parlavano tutte insieme, mia madre e le mie due sorelle. Ho scoperto che l’altra mia sorella, Sabah, era in ospedale con lui.

Mesi fa gli avevano diagnosticato i primi sintomi di un ictus, ma lui aveva nascosto il problema e non ne aveva parlato con nessuno. L’hanno operato. Il medico aveva detto che l’intervento era necessario per curarlo; dopo essersi fatto pagare, ha detto che il suo scopo era solo diagnostico e che presto mio padre avrebbe avuto bisogno di una nuova operazione.

Un altro dottore ci ha spiegato che avrebbero potuto fare diagnosi e cura nello stesso momento, ma che avevano voluto approfittare il più possibile della situazione. Dopo che la mia famiglia ha pagato tanto per niente, all’ospedale si sono rifiutati di consegnare la cartella clinica completa, così da costringerci a programmare il secondo intervento nella stessa clinica.

In Libia la famiglia è l’unica banca su cui puoi fare affidamento quando è più necessario

Mia sorella maggiore ha sottratto mio padre alle grinfie dei macellai e l’ha fatto ricoverare nel reparto di terapia intensiva a Tripoli, dove è riuscita a fatica a tenere un letto per lui. Una volta che mio padre è stato ricoverato e stabilizzato, mia sorella ha cominciato a prendere in considerazione tutte le opzioni possibili, consultandosi anche con altri medici con l’obiettivo di trasferirlo in un’altra clinica per l’intervento.
È venuto fuori che le opzioni a nostra disposizione erano molto limitate: non possiamo andare da alcuni medici a causa della guerra che infuria in città.

La mia famiglia ha provveduto al 50 per cento dei costi dell’intervento. Appena ho capito la situazione, ho preso a darmi da fare con loro per garantire il resto. Anche in questo caso era difficile spostarsi in alcuni luoghi della città a causa delle battaglie in corso. Non potevamo ritirare soldi dalla banca e non potevo chiedere a nessuno di mandarmi dei soldi tramite Western Union o Moneygram.

I medici accettano solo contanti, e vogliono essere pagati fino all’ultimo in anticipo; altrimenti non muoveranno un dito per aiutarlo. Siamo riusciti a raccogliere i soldi con l’aiuto dei miei cugini: in Libia la famiglia è l’unica banca su cui puoi fare affidamento quando è più necessario.

Una città divisa dalle milizie
La battaglia a Tripoli è scoppiata nel quartiere di Abu Sleem tra la milizia locale guidata da Abdul Ghani al Kikli (noto anche con il nome di Ghneiwa) e il suo arcinemico Salah al Burki, leader di un gruppo armato forte e numeroso proveniente da Misurata e stabilito a Tripoli. Gli abitanti hanno visto i carri armati e hanno assistito all’uso di artiglieria pesante. Il numero dei morti non è ancora confermato, ma almeno otto cadaveri sono arrivati all’ospedale di Abu Sleem.

Secondo fonti locali “le ragioni degli scontri non sono ancora del tutto chiare, sebbene si ritenga che Burki voglia scacciare Ghneiwa”. Ghneiwa ha detto che “morirebbe piuttosto che andarsene”.

Molti abitanti sono rimasti bloccati nel mezzo senza poter scappare; la Mezzaluna rossa libica ha consigliato ai cittadini di restare a casa e ha reso disponibile un numero per le chiamate d’emergenza.

Nel Libya Herald si legge: “La guardia nazionale libica (Gnl), collegata a Khalifa Ghwell, è attiva anche a est e ovest di Abu Sleem. Se controllasse questo quartiere, avrebbe il controllo completo della strada che collega Tripoli all’aeroporto da poco riaperto, attualmente controllato dalla Gnl. Lo stesso vale per la superstrada che attraversa Tripoli”.

Secondo il Libyan Observer, “il gruppo armato di Ghneiwa, che dipende dal ministero dell’interno del consiglio di presidenza, ha rivendicato venerdì scorso il controllo della caserma di Al Burki, ma quest’ultimo ha subito negato. Il Consiglio di presidenza insediato dalle Nazioni Unite non ha commentato, ma il governo di salvezza nazionale in un comunicato ha sollecitato entrambe le parti in lotta a porre fine agli scontri e ha chiesto alle sue unità militari di essere pronte a intervenire per reprimere il caos se le due parti dovessero rifiutarsi di rispondere alla richiesta di cessate il fuoco”.

Un grande imbroglio
Una cosa di cui non si parla è che uno dei leader delle milizie che si è gettato nella mischia e si è impegnato in questa battaglia è il famigerato Shere Khan (che trae il suo soprannome dalla tigre nel Libro della giungla). Era presente alla riapertura dell’aeroporto di Tripoli il 16 febbraio, due giorni prima del mio viaggio in Tunisia. Sono stato tecnicamente costretto ad andarci per seguire la cerimonia, ma questa è un’altra storia che racconterò in un’altra occasione.

L’inaugurazione è stata un grande imbroglio. Tutti i giornalisti e i canali televisivi nazionali e internazionali parlavano della riapertura dell’aeroporto e la analizzavano mostrando video e foto di questo “grande risultato” per sbatterlo in faccia ad Al Serraj (a completare la scenetta, Khalifa Ghwell ha mandato un invito ufficiale in qualità di primo ministro del Governo di salvezza nazionale al “signor” Serraj).

La tregua è stata stabilita – come sempre – a seguito di negoziati condotti dagli anziani delle tribù e dai comandanti delle diverse milizie

L’aeroporto era pronto come il set di un film: non c’era niente che potesse qualificarlo come un aeroporto, figurarsi un “aeroporto internazionale”. Avevano sistemato e arredato solo quella che definivano “sala vip”. L’aereo atterrato all’aeroporto era piccolo; l’enorme pista vuota non era stata ancora preparata con le illuminazioni. L’aeroporto non è affatto pronto; “forse” potrebbe esserlo nel giro di qualche mese, ma adesso non è nient’altro che una grande manovra priva di contenuto.

Per ammazzare il tempo durante la cerimonia, ho osservato da vicino i comandanti presenti e gli uomini armati che garantivano la sicurezza dell’aeroporto (e più in generale della strada per arrivarci), noti come guardia nazionale. Accanto al primo ministro c’erano numerosi capi di milizie di Tripoli, compreso Salah Badi, che ha sferrato l’attacco all’aeroporto nel 2014. Uno di loro in particolare era degno di nota: Sher Khan, quello che ultimamente si è unito alla guerra contro Ghneiwa.

Chissà quando la gente capirà che non fanno altro che cambiare nomi e uniformi: le Guardie nazionali di Khalifa Ghwell o le Guardie presidenziali di Al Serraj sono la stessa cosa. Un miliziano resta sempre un miliziano. Li puoi vestire come vuoi, sono quello che sono.

La mattina del 25 febbraio Tripoli era tranquilla dopo diversi giorni di esplosioni. Il fumo si è dissolto dopo che le fazioni in lotta hanno raggiunto un accordo di pace, non grazie al governo né agli aggiornamenti sui social dell’inviato dell’Onu per la Libia, Martin Kobler, che spiegava quanto fosse preoccupato, né tantomeno grazie ai tweet dell’ambasciatore britannico. La tregua è stata stabilita – come sempre – a seguito di negoziati condotti dagli anziani delle tribù e dai comandanti delle diverse milizie.

Le cose stanno così: ciascuno resta nel suo territorio e, come sempre, alla gente non resta che contare le perdite, seppellire i morti e lottare per ottenere un posto in un ospedale per un ferito, asciugarsi le lacrime, rimuovere le macerie e le auto bruciate dalla strada, mantenere la calma e andare avanti. Mio padre si opererà questa settimana se tutto andrà bene. Non possiamo fare altro che restare al nostro posto e superare questo momento, come fa una famiglia.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it