11 giugno 2017 16:15

Nel corso degli ultimi due anni, per prepararmi al lavoro per il film L’ordine delle cose di Andrea Segre, ho studiato da vicino i centri di detenzione libici e le unità di contrasto all’immigrazione irregolare. Ne sapevo già abbastanza su come funzionano le cose in Libia, ma queste situazioni non le avevo mai viste di persona. In fin dei conti l’importante non è quello che sai, ma quello che puoi dimostrare. C’è voluto un po’ di tempo per farmi degli amici all’interno, ma alla fine ci sono riuscito.

Una mattina ho ricevuto una telefonata dal direttore di una di queste unità di contrasto a Tripoli. Mi ha detto che la notte prima avevano arrestato alcuni migranti e mi chiedeva se ero interessato a vederli.

Ci sono andato subito, afferrando la macchina fotografica. Sono arrivato prima del direttore e, quando hanno provato a fermarmi al cancello, ho spiegato in modo vago che ero amico del direttore e che mi trovavo lì perché mi aveva invitato lui. Non erano entusiasti, ma mi hanno fatto entrare.

Soldi per il rilascio
Non era una struttura molto grande; l’edificio dava l’idea di una piccola fabbrica abbandonata ed era situato proprio sulla strada in una delle zone più affollate di Tripoli. Dentro c’erano pochi uffici spogli e le celle erano una sfilza di stanze spoglie collegate da un corridoio che finiva con una porta d’acciaio.

C’erano decine di migranti seduti per terra nel cortile. Le guardie li avevano portati lì per smistarli e farli respirare un po’, perché le celle erano affollate e poco ventilate.

Con molta attenzione e senza fretta ho fatto un giro, ho parlato con alcuni migranti e ho cominciato a fare qualche ripresa. Ho notato una delle guardie che chiedeva bruscamente ai detenuti dove vivevano e cosa facevano. Ad alcuni ordinava di parlare al telefono con un suo amico, in modo da poter capire la loro lingua. Ho capito che stava valutando chi avrebbe potuto pagarlo per il rilascio. Mi ha visto riprendere questi scambi e, pieno di rabbia, mi ha fermato.

Alla fine gli ufficiali ne hanno avuto abbastanza di me e mi hanno impedito categoricamente di effettuare delle riprese. Mi hanno fatto le solite, brutte domande: da dove venivo, per chi lavoravo, se avevo il permesso di portare con me la macchina fotografica.

Le milizie locali arrestano a casaccio e illegalmente ogni africano che incontrano. Li prendono nei loro negozi, nelle loro case, per strada

Non mi sentivo intimidito: per me all’epoca essere interrogato da volti glaciali che mi squadravano in cagnesco era pane quotidiano. Eppure non volevo che la situazione peggiorasse perché non volevo perdere l’accesso alla struttura, perciò ho risposto alle loro domande con molta attenzione. Per fortuna a quel punto è arrivato il direttore e mi ha salutato. Quando ha detto che ero a posto, quelli si sono fatti da parte e, come se niente fosse, mi hanno lasciato in pace.

L’ufficiale che stava torchiando i detenuti ha continuato ad assillarli, chiamandoli con nomi di animali e ricorrendo all’insulto razzista che si usa da queste parti nei confronti di una persona dalla pelle scura: abed,wasif, schiavo, servo.

Farne ciò che vogliono
Questa è stata la conversazione tra gli ufficiali e il direttore:

Ufficiale 1: “Quanti sono in tutto?”.
Direttore: “Quelli che ho lasciato ieri erano 24”.
Ufficiale 2: “Adesso sono 38, se escludiamo l’egiziano che se n’è andato”.
Direttore: “Ok, il numero di persone lasciate qui ieri era 24”.
Ufficiale 1: “Se aumentano va sempre bene”.
Direttore: “No”.
Ufficiale 1: “Ce n’erano molti altri, ma gli hanno portato i documenti perciò li abbiamo liberati”.
Direttore: “Questi sono quelli che abbiamo portato ieri, giusto?”.
Ufficiale 1: “Sì, li ha portati (…) [nome di un famigerato leader di una milizia locale], li ha arrestati il suo gruppo. Ce li hanno portati i suoi uomini, eseguendo i suoi ordini. Ha detto che potevamo farne ciò che volevamo, metterli in carcere, liberarli o perfino ucciderli. E chi ne voleva prenderne uno, poteva farlo”.

Tutte le volte che aumentano le pressioni per avere dei risultati, le milizie locali danno il via a una campagna di arresti. Arrestano a casaccio e illegalmente ogni africano che incontrano. Li prendono nei loro negozi, nelle loro case, per strada. Prendono tutto ciò che hanno e li consegnano alle unità di contrasto come questa.

Rashad Abu Bakar, originario del Ghana, mi ha detto che viveva in Libia da due anni e che non aveva idea del perché lo avessero arrestato. “Ieri stavo lavorando nel negozio, vendevo carne. A un certo punto sono arrivati e mi hanno arrestato, mi hanno portato qui”. Non aveva mai cercato di compiere la traversata verso l’Europa. Lavorava in Libia per aiutare la sua famiglia in Ghana. Le ultime parole che mi ha rivolto sono state: “Non ho niente da dire, posso solo implorarli, perché non sappiamo cosa abbiamo fatto. Viviamo qui, stiamo qui, lavoriamo qui, non andiamo mai in altri posti, e loro sono venuti ad arrestarci, perciò possiamo solo implorarli”.

Tengono i detenuti nel centro senza documenti, due giorni o anche una settimana, a dormire sul pavimento e a ricevere insulti. Liberano chiunque riesca a contattare i loro sponsor libici che vengono a prenderli per portarli via, o chiunque possa pagare. Poi trasferiscono gli altri in un centro di detenzione.

Oasem Amino Ali Azzaeddin, 27 anni, viene dal Ghana. Viveva in Libia da tre anni e lavorava in un negozio di frutta e verdura. Era nel negozio quando sono venuti a prenderlo, gli hanno preso tutto ciò che aveva, compresi soldi e cellulare. Mi ha spiegato perché era venuto in Libia: “Sai, è per il lavoro, perché in Ghana non c’è lavoro, non ci sono soldi. Ho una famiglia, capisci? Mio padre è morto; dovevo venire qui per sfamare la mia famiglia”.

La struttura era una tappa intermedia del loro viaggio, e non era nemmeno il posto peggiore a Tripoli.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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