30 marzo 2018 12:46

Incontrare i miei amici in Italia somiglia sempre a una piccola interruzione tra due lunghi addii. Questa pressione mi spinge ad abbracciarli come se non dovessi rivederli mai più. Ma è corretto dire che questa tendenza è scritta nel mio codice genetico. Sono libico, e noi libici abbracciamo e baciamo.

Stavolta avevo solo due giorni da trascorrere a Roma prima di rientrare a Tripoli, meno ancora se contiamo anche le ore trascorse a cercare di capire dove mi trovavo e a chiedere indicazioni. L’aspetto positivo di un visto così breve è che mi ha costretto a pensare alle mie priorità, a come e con chi avrei trascorso il poco tempo a mia disposizione. Avere consapevolezza dei nostri limiti ci impone di definire le nostre priorità e di decidere cosa fare con il nostro tempo. Questo dice molto del modo in cui siamo fatti (in un certo senso, non è questa la vita?).

Il poeta Rumi diceva “Chi potrebbe essere così fortunato? Chi giunge a un lago in cerca di acqua e vede il riflesso della luna”. In base alla sua definizione sono stato fortunato. Prima di vedere il riflesso della luna a Roma sono stato a Livorno, dove ho partecipato a una conferenza sulle città del Mediterraneo organizzata dalla Comunità di sant’Egidio. L’incontro prevedeva diversi panel di discussione nell’arco di due giorni, e tutti erano dedicati al tema: “Le città hanno un’anima. Vita e futuro nel Mediterraneo”.

Oggi aiutare le persone è diventato un affare per molte grandi organizzazioni

Livorno era il luogo perfetto per la conferenza. Potrei descriverla come descrivo Tripoli. Tra tutte le caratteristiche della cultura mediterranea della città, gli aspetti principali si ritrovano nella sua cucina. E come per la cucina, la cosa importante non sono le ricette, ma la sensazione che danno gli ingredienti, il loro sapore e il loro odore. Quella mediterranea è una cucina inventata dai poveri e per i poveri, e anche se alcuni piatti oggi sono considerati cibi di lusso, è nata da radici umili. E quel che conta di più sono i familiari e gli amici intorno al tavolo.

Il primo panel si intitolava “Città di carta”, e i partecipanti arrivavano da Palermo, Livorno, Marsiglia, più me da Tripoli. Parlare oggi di Tripoli e dei cambiamenti subiti dalla città negli ultimi anni è già complicato di per sé, figurarsi doverlo fare in quindici minuti.

Pensavo che dopo sette anni sarei riuscito a parlarne con un po’ più di serenità ma mi sbagliavo. La tristezza di alcuni ricordi non si dissolve mai con il passare del tempo. Gli anni sono come il vino. Condividere simili ricordi è come aprire una cantina, scegliere le migliori tra le vecchie bottiglie e invitare il pubblico ad assaggiarle. Avrei notato in seguito che non ero l’unico a essere venuto a Livorno con il suo vino migliore.

I partecipanti sono arrivati a Livorno da diverse città, portando con sé pezzi delle loro vite. Scrittori, giornalisti, poeti, studenti, architetti, storici, artisti, attivisti. Tra loro c’era anche Eric Kempson, una categoria a sé stante. Se lo descrivessi come un attivista o un operatore umanitario si offenderebbe. Mi ha corretto una volta, dicendomi che no, non è un operatore umanitario, è solo un essere umano che aiuta altri esseri umani.

Sono un essere umano, quando vedi persone che soffrono non puoi restare a guardare

Eric è uno scultore britannico. Un giorno con sua moglie Philippa e sua figlia Elleni, di sedici anni, è andato a Lesbo in vacanza e ha deciso di restarci a vivere. A un certo punto, nel 2015, le barche con i profughi hanno cominciato ad arrivare, e loro hanno deciso di dare una mano. “Sono qui e sono un essere umano, quando vedi persone che soffrono non puoi restare a guardare”, ha detto. Hanno avviato il progetto The hope con l’obiettivo di accogliere e salvare i profughi. Non ha ricevuto “neppure una bottiglia d’acqua da un’organizzazione umanitaria o dal governo”. Ad aiutarlo c’erano solo volontari provenienti da tutto il mondo e gli stessi profughi.

Alcuni interventi hanno portato con sé la luce, altri hanno dovuto portare l’oscurità dai luoghi da cui venivano. Nel corso dei dibattiti tutti i pezzi si sono uniti per formare un grande ritratto del Mediterraneo di oggi. Alcuni ne sono rimasti sorpresi, altri ispirati. Altri ancora, come me, si sono fatti nuovi amici che sarebbe stato impossibile incontrare in qualsiasi altro posto. La sera dell’ultimo giorno a cena mi sono guardato intorno: ero un musulmano seduto accanto ai miei nuovi amici yazidi ed ebrei, parlavo con un prete italiano che si rivolgeva a me in un arabo perfetto, e intorno a noi, raccolte in quella stanza, c’erano persone provenienti da tre diversi continenti.

Ero sorpreso di non aver conosciuto prima la Comunità di sant’Egidio. Per descrivere il loro operato il papa ha usato tre parole: pace, poveri e preghiera. Quando ho trascorso del tempo con alcune persone della comunità a Livorno, però, a catturare la mia attenzione non è stato solo cosa fanno, ma anche come lo fanno. Stabiliscono un rapporto con le persone che aiutano. Per esempio, a Livorno conoscono tutti i senzatetto e i poveri, li vanno a trovare spesso per parlare con loro, dare del cibo, riparo e indumenti. A Natale hanno offerto il pranzo a 600 persone, e a ciascuna di loro hanno fatto un regalo, scelto con cura.

L’affare umanitario
Oggi aiutare le persone è diventato un affare per molte grandi organizzazioni. Ho visto molti casi simili in Libia, e posso dire che quello che si vede sui loro siti è molto diverso dalla realtà qui. Con l’unica eccezione di Medici senza frontiere, nessuna delle grandi organizzazioni di cui si legge ha una vera presenza in Libia, tutt’al più vi si avvicinano attraverso le email, le transazioni bancarie e i rapporti ufficiali. Hanno subappaltato il loro lavoro a operatori locali, senza verificare se siano qualificati o affidabili. A volte il personale locale viene formato solo attraverso brevi corsi online.

Ho parlato con molti operatori di ong locali che lavorano con o per conto di grandi nomi del settore umanitario. Naturalmente il tutto in via non ufficiale, poiché hanno firmato rigidi accordi di riservatezza. Molti mi hanno detto che per essere pagati devono visitare i centri di detenzione per riempire e inviare formulari e questionari. Di solito lo fanno pochi giorni prima della scadenza, incontrando il minor numero possibile di persone da intervistare. Nella maggior parte dei casi sono costretti a corrompere le guardie per poter entrare nei centri di detenzione.

La parte più importante dei loro contratti è legata alla visibilità. Il personale locale deve indossare i loro loghi e attaccare alle automobili gli adesivi tutte le volte che possono. Hanno assunto alcuni registi e fotografi locali per documentare le loro “attività umanitarie”, per produrre foto e video, di solito di migranti che sorridono o mentre prendono “volontariamente” un aereo per fare ritorno nei loro paesi. Questo dà ai lettori di tutto il mondo l’illusione che loro sono qui, sul campo, esperti e impegnati a salvare vite umane e a proteggere le persone più vulnerabili. Stavo per scrivere “profughi”, ma questa parola non ha alcun significato in Libia, poiché la Libia non ha firmato la convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951.

La Comunità di sant’Egidio, invece, non usa la causa dei migranti per guadagnare risorse, ma usa le sue risorse per aiutare la causa. Mi piace l’umiltà con cui ne parlano, come quando raccontano perché hanno scelto il nome di Sant’Egidio. È stata una coincidenza, spiegano: quando la comunità è stata fondata, nel 1968, non possedeva un luogo per incontrarsi; poi, nel 1973 hanno occupato la chiesa abbandonata di Sant’Egidio a Trastevere e hanno scelto di chiamarsi come quel posto. Non posso fare a meno di immaginare che questo sia stato il dono del santo al piccolo gruppo di persone che volevano un posto in cui pregare. Un vecchio proverbio africano dice, “Quando preghi, muovi i piedi”. Ecco quello che fanno da anni, lentamente ma senza fermarsi, a partire da quella piccola chiesa abbandonata di Trastevere. Alla sinistra del cancello su una panchina c’è la scultura Homeless Jesus. Dopo un po’ ti rendi conto di stare lì in silenzio, come se avessi paura di svegliarlo.

Quella sera, quando è arrivato il momento di salutarli ho abbracciato i miei amici. Sono libico, e noi libici abbracciamo, e quando abbracciamo baciamo anche. Sono salito su un taxi per andare a cena con altri tre amici che erano sulla mia lista di persone da baciare quella sera, prima di tornare a Tripoli il giorno dopo. Pensavo a una cosa che avevo scoperto riguardo la Comunità: ci sono altre due parole che consentono loro di fare quello che fanno: pazienza e passione.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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