02 maggio 2019 13:37

Tutte le volte che vedo un uomo armato in uniforme il mio cervello da lucertola risponde con un brivido che mi attraversa gli arti. Non posso fare a meno di sobbalzare. Forse perché in Libia ogni incontro con un uomo armato, per quanto la sua divisa dica che lavora per il ministero dell’interno, è un’esperienza spiacevole, che ti macchia il cervello come un tatuaggio con linee spesse e scure.

Mi ci è voluto qualche giorno in Italia per perdere questo riflesso condizionato. Poi però ho cominciato a notare un’altra cosa. Tutte le volte che incrocio un poliziotto o un soldato, soprattutto nelle stazioni della metropolitana, sono loro a sobbalzare per un millesimo di secondo, stringendo un po’ più forte il calcio della loro arma. Non posso biasimarli.

Forse penserete, a buon diritto, che a scatenare questa reazione sia il mio aspetto fisico, i miei capelli lunghi e la mia barba. In realtà le cose non stanno così. Credo si tratti del mio pessimo taglio di capelli, che mi fa apparire davvero pericoloso. L’ho definito un “fallimento della comunicazione”.

Un disagio condiviso
Sono entrato nel negozio di un barbiere a Roma e ho chiesto “Parla inglese?”. “Sì, signore”, mi ha risposto lui con un grande sorriso. Mi sono appoggiato allo schienale della poltrona, mi sono rilassato e ho spiegato che volevo dare una spuntata e una sistemata alla barba, tagliare i capelli di pochi centimetri e risistemare le basette senza esagerare. Lui ha ascoltato con attenzione e ha detto: “No problem”, poi ha schioccato le dita all’improvviso, premendo il pulsante del rasoio elettrico che aveva stretto nervosamente in mano per tutto il tempo e con un unico movimento deciso degno di Hannibal Lecter mi ha assassinato i capelli!

Era troppo tardi per lamentarsi, sono riuscito soltanto a chiedere “Perché?”. Deve aver pensato che stessi apprezzando il suo crimine, perché mi ha sorriso e ha proseguito. Quel giorno sono uscito dal negozio con due certezze: devo assolutamente migliorare il mio italiano, e quando un fallimento della comunicazione non viene risolto i risultati possono essere molto gravi.

Lontano dalla mia piccola tragedia con quel terribile taglio di capelli, non capivo perché Giovanna Cavallo condividesse il mio stesso disagio vicino a un poliziotto, come se anche lei avesse alle spalle qualche brutta esperienza. Cavallo lavora con Baobab Experience. Volevo trascorrere un paio di giorni con lei e seguire il loro lavoro. Quel giorno mi ha portato con sé per farmi vedere come arrivarci, così poi avrei potuto andarci anche da solo.

Da quando sono arrivato ho visto parecchie cose che non dovrebbero succedere in Europa

Siamo saliti in auto e abbiamo attraversato Roma diretti alla stazione Tiburtina. Ci siamo fermati spesso a salutare delle persone. Avevo la sensazione che conoscesse tutta Roma. Tutti la salutavano con grandi sorrisi finché alle nostre spalle è spuntato un uomo in moto che ha cominciato a seguire la macchina e a urlare avvicinandosi sempre più. Quando è riuscito ad affiancarla l’ha guardata dritta in faccia dal finestrino e le ha ripetuto i suoi insulti. Era determinato a farle sentire tutto il suo bel vocabolario, qualunque fosse la ragione per cui si sentiva in diritto di importunarla per strada. Lei l’ha ignorato e ha continuato a sorridere. Quando le ho chiesto cosa le avesse detto, sebbene non ci volesse poi una grande immaginazione per indovinarlo, con lo stesso sorriso mi ha risposto semplicemente: “Ha detto qualcosa di poco gentile”. Per un attimo mi sono tornati in mente i racconti di mia sorella sulle esperienze che ha tutti i giorni quando va al lavoro a Tripoli. Pensavo che questo non accadesse in Europa.

Una volta alla stazione mi ha spiegato: “Qui montiamo tutti i giorni le tende per distribuire il cibo, poi le leviamo dopo aver finito di servire i pasti. Qui montiamo un’altra tenda che funziona da ufficio mobile per fornire assistenza legale. Io sono la responsabile della squadra di supporto legale, siamo qui cinque giorni alla settimana. Da soli non ce l’avremmo fatta, sono tante le ong che collaborano con noi”. Quando stavamo per andare via ha visto l’automobile della polizia nella stazione, ha tirato il freno a mano ed è uscita di corsa per andare a parlare con i poliziotti. Dopo qualche secondo è tornata e mi ha rassicurato: “Ok, ci infastidiscono sempre, ma stavolta non sono qui per noi”.

Prima che riuscissi a chiederle della sgradevole vibrazione che le sentivo addosso tutte le volte che incontravamo un poliziotto, lei mi ha detto: “Sono stata arrestata parecchie volte durante le manifestazioni, a volte semplicemente perché ho aiutato i profughi picchiati dalla polizia. Prima non avevo paura della polizia. Adesso però tutte le volte che ho a che fare con loro mi preoccupo. Una volta due di loro mi hanno rinchiuso in un ufficio, uno mi ha dato uno schiaffo in faccia e un altro mi ha dato un pugno nello stomaco. Riesci a immaginarlo? Scommetto che si sono sentiti davvero forti in quell’occasione”.

Cambiare il sistema
Ci siamo fermati al semaforo. Dallo stereo dell’auto usciva a tutto volume Comrades della band Mashrou’ Leila. Ho abbassato il finestrino per accendermi una sigaretta. Era una strana sensazione per me, e ho continuato a riflettere. Pensavo che queste cose non succedessero in Italia, ma a dirla tutta da quando sono arrivato qualche settimana fa ho visto parecchie cose che non dovrebbero succedere in Europa. Non so cosa stia accadendo ultimamente, è come se vivessimo sul bordo di un periodo instabile. Viviamo davvero in tempi interessanti, il cambiamento è dappertutto, tutto quello che davamo per scontato, tutto quello che pensavamo di conoscere potrebbe non essere lo stesso in futuro.

Giovanna Cavallo nell’ufficio mobile di Baobab Experience vicino alla stazione Tiburtina, Roma, aprile 2019. (Khalifa Abo Khraisse)

“Questa è la mia vita”, ha detto Cavallo, interrompendo il corso dei miei pensieri. Continuava a giocherellare con i capelli e a guardare la strada. “Questa è la mia vita, cerco tutti i giorni di aiutare i profughi, per me è una cosa essenziale. Io ho l’arma della residenza, loro no, perciò devo lottare anche per loro. Potrebbe succedere a chiunque, ognuno di noi un giorno potrebbe essere un profugo, perciò non sarebbe bello trovare qualcuno che ci aiuta e lotta per noi? Suppongo di sì, a me piacerebbe. Hai perso la tua casa, perciò devi trovare una nuova casa, le cose non dovrebbero essere così complicate”.

Giovanna è un’attivista, non una volontaria. “Entrambe le figure sono importanti e fanno un lavoro importante, ma i volontari offrono il loro aiuto e fanno ciò che possono per prestare assistenza, mentre gli attivisti oltre a questo lottano per cambiare il sistema”. È un’attivista da vent’anni, da quando era alle superiori, prima ancora di trasferirsi nel 2002 a Roma da Napoli, dove è nata.

Ha proseguito: “Per me è cambiato tutto da quando cinque anni fa sono diventata madre. Non puoi capirlo finché non diventi un genitore, tutto cambia da quando tieni in braccio tuo figlio per la prima volta. Da quel momento ogni volta che vedi un bambino non riesci a fare a meno di pensare che potrebbe essere il tuo, e ogni volta che vedi una madre soffrire senti quelle sofferenze come se fossero le tue. Con l’andare del tempo può essere sfibrante, vedi le persone, ascolti tante storie, soprattutto dalla Libia. Mi serve coraggio per andare avanti. Ogni giorno sento il cuore spezzarsi diverse volte”.

Promesse confortanti
Il giorno dopo sono tornato alla stazione Tiburtina e mi sono diretto verso il suo ufficio mobile. Il tavolo era sistemato all’aperto, sotto una piccola tenda. Migranti e profughi erano seduti tutto intorno. Ognuno aveva in mano un numero, in attesa del suo turno per poterle rivolgere delle domande. Alcuni volevano dare seguito a procedure già avviate, altri avevano bisogno di un parere legale, altri ancora erano venuti per avere degli aggiornamenti. Quando sono arrivato e ho salutato lei e i suoi colleghi c’era un profugo siriano sulla cinquantina che parlava con loro ad alta voce e con un gran sorriso. Aveva tante domande per capire cosa fare e cosa aspettarsi.

Si è fermato a parlare con me qualche minuto e mi ha spiegato la sua situazione. Sta cercando di portare qui sua moglie dalla Siria. Mentre me lo raccontava ha perso il sorriso per un po’ e la luce nei suoi occhi è svanita. Mi ha parlato di sua moglie e subito è apparso distrutto e debole, invecchiato di parecchi anni in un secondo. Mi ha raccontato di quanto sia stato difficile arrivare in Italia, poi si è riscosso, ha ripreso a sorridere indicando Giovanna: l’ha incontrata una volta arrivato qui, lei l’ha aiutato e lui le ha promesso di portarla in Siria un giorno, di ospitarla e di farle da guida. Poi ha ringraziato e abbracciato tutti quanti ed è andato via. Mi è sembrato che la promessa di tornare un giorno nel suo paese fosse più confortante per lui che per chiunque altro. Conosco queste promesse, io stesso ne faccio tante. Sono riuscito a rivolgergli a fatica un inshallah e a sorridergli, nient’altro.

Ho fumato qualche sigaretta guardando l’ufficio mobile. Ogni volta che qualcuno andava via lei gridava il numero della persona successiva e un’altra persona provata si faceva avanti fino al tavolo, si sedeva e mostrava i documenti. Un’altra storia si apriva, un’altra vita, un’altra persona confusa che cercava di trovare delle risposte: cosa faccio? Dove vado? Dove posso dormire? A volte erano solo malati, e volevano vedere un dottore. Quando se ne andavano lei ricordava loro con gentilezza: “Ehi, verso le sette serviremo la cena, resta nei paraggi se vuoi e i medici saranno qui domani”. Loro le stringevano la mano e raccoglievano i documenti, poi lei chiamava il numero successivo.

Confini morali
Qualche giorno dopo ho preso un autobus che da Matera mi ha riportato a Roma. Sono arrivato alle 6.30 alla stazione Tiburtina, mi sono diretto verso l’ufficio mobile e ho trovato Giovanna lì con due colleghi. Lì intorno c’erano persone che dormivano contro le pareti della stazione. Ho chiesto se fossero rimasti tutta la notte. Roberto Viviani mi ha spiegato che erano arrivati da poche ore e che si sarebbero fermati fino alle otto, poi sarebbero arrivati i volontari per servire la colazione, dopodiché sarebbero andati via. “Stiamo qui perché già diverse volte questa settimana la polizia è arrivata e ha sgomberato i migranti. Hanno arrestato tutti i neri che vedevano, sia quelli con i documenti sia quelli senza. Li hanno portati in commissariato e li hanno tenuti lì tutto il giorno. Hanno preso anche tre volontari perché li aiutassero a identificarli. Cinquanta poliziotti, cinquanta poliziotti arrabbiati e aggressivi”.

Alle otto arriva una ragazza con delle buste di plastica contenenti latte e biscotti, e un uomo con tè e caffè. Alcuni migranti hanno appena finito di pulire il luogo dove hanno dormito e cominciano a chiacchierare con noi. Poi per qualche secondo sono tutti felici, ridono e si scambiano battute. Ho chiesto a Giovanna se la ragazza fosse una loro volontaria. Lei mi ha risposto che quando su Facebook chiedono se qualcuno vuole dare una mano a preparare la colazione, le persone cominciano a offrire latte, pane, eccetera. Loro pensano a coordinare le offerte e poi qualcuno le porta alla stazione.

Quando la osservo parlare con tutti durante la colazione non posso fare a meno di pensare alle parole di Ernest Hemingway: “Fino a ora, sulla morale ho appreso soltanto che una cosa è morale se ti fa sentire bene dopo averla fatta, e che è immorale se ti fa star male”. Semplicemente questo. Immagino che lei si senta bene. È stanca, a volte triste, ma dopo ogni lunga giornata di lavoro si sente bene. Vorrei sentirmi così bene anche io un giorno, ma so che sarà impossibile con un taglio di capelli così orrendo.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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