23 settembre 2019 10:00

Dopo aver trascorso ore incollato al sedile di un’automobile cominci ad agitarti, sposti il peso da una parte all’altra, le gambe ti si intorpidiscono. Davanti e dietro a te una lunga fila di auto indolenti si distende come un gigantesco millepiedi di metallo. Tutte quelle auto, compresa la tua, sono in attesa di varcare il confine dalla Libia alla Tunisia. Ti sembra di avvertire una forza che continua a trattenerti in Libia e fino all’ultimo si rifiuta di lasciarti andare.

Ti senti confuso, ti fai tante domande. Per esempio, perché devi aspettare per ore e ore? Perché non riesci a capire se le forze che controllano il confine sono poliziotti regolari o solo criminali e banditi? Caro il mio sfortunato viaggiatore, ti consiglio di rilassarti. Il confine è un territorio diverso: sulla carta appartiene al Governo di accordo nazionale, ma in realtà è una terra di nessuno controllata dalle milizie di Zuara.

Dove finisce la fila delle macchine della gente comune si apre uno spazio vuoto dopo il quale comincia un’altra lunga fila che si interrompe al varco per il controllo dei passaporti. Osservando le macchine privilegiate alle quali viene garantito un passaggio veloce si iniziano a intravedere degli schemi ricorrenti. Tutte queste macchine sono vari modelli di Mercedes degli anni novanta. Si deduce senza ombra di dubbio dal modo in cui parlano che tutti quelli che le guidano, così come gli agenti che controllano il confine, provengono dalla città di Zuara, situata sulla costa 100 chilometri a ovest di Tripoli e a soli 60 chilometri dal confine con la Tunisia. In parallelo alla fila delle Mercedes scorre un’altra fila, formata stavolta da modelli Renault con targhe tunisine.

Dovete sapere che alcune officine costruiscono serbatoi di carburante extra che possono essere installati alla perfezione su quei modelli di automobile. Con un simile serbatoio si possono trasportare fino a duemila litri di carburante. Gli autisti lo comprano a Zuara e in altri posti subito oltre il confine con la Libia. Il carburante in Libia costa meno di 0,15 dinari libici (0,09 euro) al litro, molto meno che in Tunisia (in media 2,7 dinari tunisini, ossia 0,8 euro). Fanno il pieno, attraversano il confine e rivendono il carburante in Tunisia. Ovviamente le squadre su entrambi i lati del confine lavorano insieme facilitando questa operazione quotidiana. Tutti ne ricavano qualcosa.

Per farsi una vaga idea delle dimensioni di queste operazioni, si pensi che, secondo la National oil company, i costi del contrabbando di carburante ammontano per l’economia libica a 750 milioni di dollari all’anno. Imad Ben Koura, direttore della Brega petroleum marketing company, ha dichiarato alla Reuters di aver “interrotto i rifornimenti di carburante a più di 400 distributori ‘fantasma’ coinvolti nel traffico”.
Il contrabbando in generale, e quello di carburante in particolare, è la principale attività commerciale e fonte di guadagno in molte cittadine del sud della Tunisia, a partire da Ben Gardane, la cittadella del mercato parallelo di valuta. Poiché infatti il dinaro libico non è convertibile, tutti i viaggiatori, i grossisti, gli importatori (e i contrabbandieri) provenienti dalla Libia (o diretti lì) devono rivolgersi a questo mercato parallelo per cambiare i loro soldi.

Le autorità tunisine hanno cercato diverse volte di porre fine a queste operazioni. In più di un’occasione hanno chiuso le frontiere, ma nessuno di questi tentativi è durato a lungo. Tutte le volte gli abitanti della Tunisia meridionale si sono ribellati, hanno bloccato le strade bruciando rifiuti e pneumatici e attaccando ogni auto libica di passaggio, distruggendola a sassate. I governi non hanno avuto altra scelta se non lasciar correre.

La sindrome nord-sud spunta fuori un po’ dappertutto nel continente. Il sud della Tunisia, così come il sud della Libia, è trascurato dalle autorità, privo di infrastrutture e marginalizzato. I suoi abitanti soffrono per la povertà e la disoccupazione dilaganti. Alla gente restano quindi poche opzioni: migrare verso il nord (e anche oltre) o dedicarsi al contrabbando.

Migranti in fuga
Qualche settimana fa ho intervistato A. (mi ha chiesto di non rivelare il suo nome), una giovane attivista italiana che ha lavorato con i profughi in diversi progetti a Gaza, Ventimiglia e Lampedusa. In Tunisia ci è arrivata con due colleghi, convinti che il progetto Europe Zarzis Afrique (Eza) possa essere un buon punto di partenza per cominciare a lavorare in Tunisia. Il progetto Eza interviene soprattutto a Zarzis, una cittadina nei pressi del confine con la Libia.

A. è stata in un campo profughi per minori a pochi chilometri da Zarzis, gestito dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati( Unhcr). Ero curioso di conoscere la sua opinione.

“Al mio arrivo i ragazzi sembravano in condizioni accettabili, ma erano da soli. Non c’era nessun operatore, e il campo è molto isolato rispetto al centro della città. Erano ospitati in un grande edificio che somigliava a una sorta di fattoria. La struttura sembrava spaziosa e ben equipaggiata, ma i dormitori non erano puliti. Alcuni giovani mi hanno detto che non sempre ricevono cibo o un’adeguata assistenza medica. Uno di loro mi è sembrato in condizioni di salute piuttosto precarie”.

Molti sostengono l’idea di trasferire in Tunisia i migranti bloccati in Libia, considerando il primo un paese sicuro. Si tratta di un’argomentazione che si regge su alcuni assunti, ma temo che la risposta non sia così semplice. In parte arrivo a capirne la logica, basandomi su quello che io in quanto libico considero un “posto sicuro”. È ovvio che in questo momento qualsiasi luogo può sembrare una soluzione buona e ragionevole se paragonato alla Libia.

Alcuni migranti fuggiti verso la Tunisia sono però tornati in Libia, e questo non fa che dimostrare e sottolineare come siano molti i fattori che li inducono a escludere la Tunisia dai loro progetti migratori e a non considerare questo paese una possibile destinazione alternativa. Se teniamo conto degli standard minimi relativi al rispetto dei diritti umani, la Tunisia non è un posto sicuro per i profughi. La situazione economica del paese è solo parte del problema.

A. ha proseguito: “In realtà, al di là del problema dell’isolamento rispetto al centro della cittadina, credo che a preoccupare maggiormente gli ospiti fosse la totale assenza di prospettive. Molti testimoni mi hanno riferito che alcuni migranti lavorano in condizioni di sfruttamento, a volte pagati in nero. Questo ci fa capire che il paese non è in grado di garantire condizioni di lavoro dignitose. L’assenza di documenti inoltre può rappresentare un grande rischio per i migranti. Mentre ci trovavamo a Zarzis, per esempio, 36 ivoriani che stavano festeggiando a Sfax la festa d’indipendenza della Costa d’Avorio sono stati arrestati dalle forze di sicurezza (polizia e Guardia nazionale) e abbandonati nel deserto vicino al confine con la Libia. In parole povere, deportati”.

Le ho chiesto se possiamo considerare la Tunisia un posto sicuro per i migranti, e le sue risposte in un certo senso hanno confermato quello che sapevo già. “Quello che abbiamo visto in questi giorni dimostra che la Tunisia non è un luogo sicuro. Trasferire qui le persone dalla Libia non può essere una soluzione, rischierebbe solo di spostare lo sfruttamento dei migranti dalla Libia ad alcune località della Tunisia”.

L’anno scorso ho assistito a una manifestazione a Tunisi. Stavo scartando la mia nuova videocamera in un bar proprio davanti alle rotaie del tram. Era difficile non notare i migranti dalla pelle scura che manifestavano e urlavano pieni di rabbia, e i veicoli militari che li scortavano. Ho chiesto in giro cosa stesse succedendo e ho scoperto che protestavano per l’omicidio di Falico Coulibaly, capo della comunità ivoriana in Tunisia. Era stato accoltellato a morte da un gruppo di tunisini in una stradina buia nel governatorato di Ariana, un sobborgo di Tunisi. Le autorità tunisine hanno arrestato sei persone, dichiarando che l’omicidio era la conseguenza di un tentativo di rapina. Volevano rubargli il cellulare e lo avevano assassinato. I manifestanti nella capitale però erano convinti si fosse trattato di un crimine d’odio.

Tutte le volte che sento parlare del progetto di trasferire i migranti dalla Libia alla Tunisia mi torna in mente quell’immagine, e non solo perché è stata una delle prime riprese effettuate con la mia nuova videocamera. Quel giorno quella scena è rimasta impressa anche nel mio cervello. Quei volti arrabbiati, quelle loro urla piene di frustrazione. Non ne avrei saputo niente se non mi fossi trovato lì per caso. Quello che non leggiamo mi preoccupa molto più di quello che leggiamo. Trovo terrificante l’idea che quello che sappiamo possa essere solo la punta dell’iceberg.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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