18 dicembre 2019 10:21

Negli anni quaranta le città occidentali della Libia furono colpite da una carestia dovuta a una grave siccità. Costrette dalla fame, masse di persone si trasferirono a est, verso Bengasi. Il governo della Cirenaica schierò l’esercito per rastrellare questi nomadi affamati ed espellerli. Le autorità inventarono un test per verificare l’identità dei mendicanti che venivano arrestati in città: chiedevano loro di ripetere le tre parole shibka (rete), halka (anello) e magraf (cucchiaio). Se una persona le pronunciava in un arabo con l’accento di Bengasi, le autorità la lasciavano andare, se le pronunciava nel dialetto occidentale la caricavano su un camion e la portavano ai confini della città.

Alcuni abitanti anziani, di origine occidentale, organizzarono un vertice per discutere della situazione. Yusuf Bin Kato (della tribù Yaeder di Misurata) suggerì agli altri cittadini di Bengasi di origine occidentale di lasciare aperte le porte delle loro case di notte e di accendere una candela o una lanterna a gas nel corridoio che conduceva alla stanza esterna riservata agli ospiti: in questo modo le persone perseguitate potevano evitare di dormire per strada e sottrarsi così all’umiliante test. Le notti si susseguirono, in molte case furono lasciate le porte aperte e venne preparato del cibo per gli ospiti notturni. Nel giro di poco tempo tutte le altre grandi tribù e famiglie di Bengasi si unirono in questo grande gesto di carità e la città ospitò tutti i profughi fino a quando la crisi non terminò e i profughi poterono fare ritorno alle loro terre. È per questa ragione che la città di Bengasi è soprannominata “rifugio dei viandanti”.

Molti scrittori e pensatori libici contemporanei hanno criticato l’uso di questo soprannome e hanno chiesto al popolo di Bengasi, che ancora porta questo titolo con orgoglio, di riflettere sulla delicatezza dell’argomento. Alcuni ritengono contenga tracce di razzismo e di una presunta superiorità perché, a distanza di molte generazioni, alcuni abitanti della città di origini meridionali o occidentali vengono ancora considerati non del tutto autoctoni, ma alla stregua di viandanti che la città ha raccolto da tutto il paese e ha ospitato.

La questione si complica ulteriormente nel caso degli abitanti non libici: anche chi vive da decenni in città viene considerato diverso, assolutamente non un cittadino libico né dal punto di vista legale né agli occhi della società. La tolleranza delle città libiche ha subìto un rapido declino dopo il 2011 e i pregiudizi sono peggiorati dopo il 2014. Marginalizzazione, esclusione e persecuzione di gente sulla base di motivazioni regionali, tribali, politiche o religiose è diventata prassi comune. In alcuni casi è diventata letteralmente una caccia alle streghe.

Zeinab Ali era una donna sudanese di 52 anni. Viveva in Libia da quarant’anni e i suoi otto figli erano tutti nati e cresciuti a Bengasi. Faceva la tatuatrice con l’henné e questa attività artigianale era diventata la principale fonte di reddito della famiglia dopo la morte del marito, due anni fa. Il 7 ottobre è uscita per andare al lavoro e non è più tornata. Un mese dopo la sua famiglia racconta così quello che è accaduto quel giorno.

Senza traccia
Il 7 ottobre Zeinab ha ricevuto una telefonata da un salone di bellezza per il quale aveva lavorato diverse volte. C’era una cliente che richiedeva i suoi servizi e aveva fatto esplicitamente il suo nome. Questo non ha destato in lei alcun sospetto, visto che nel quartiere era conosciuta per il suo lavoro e come persona perbene.

Quando però Zeinab ha saputo in che zona fosse la casa della cliente ha avuto qualche remora: era nello stesso quartiere in cui era stato trovato il cadavere di Aisha Younis, una donna sudanese che era stata rapita da uomini armati sconosciuti. Il suo cadavere era stato ritrovato qualche tempo dopo, scaricato nei pressi di una fabbrica di cemento nel quartiere di Al Hawari, con addosso segni di tortura e tre fori di proiettile. Le avevano amputato le mani. Qualche giorno dopo anche un’infermiera di nome Awatif era stata rapita da uomini armati sconosciuti. Il suo destino è ancora sconosciuto.

Zeinab alla fine ha accettato di incontrare la cliente al salone di bellezza. Pochi minuti dopo il suo arrivo, uomini armati in uniforme hanno fatto irruzione nel locale accompagnati da una donna, che si è fatta avanti e ha puntato il dito in direzione di Zeinab. Uno dei tre uomini l’ha afferrata e le ha ordinato di seguirli. Zeinab ha protestato, ma gli uomini l’hanno trascinata in macchina tirandola per i capelli. Nessuno l’ha più vista viva.

I figli hanno cominciato a cercare la madre, chiedendo alle persone, alle stazioni di polizia e a chiunque potesse aiutarli, ma di lei non c’era traccia. Il giorno dopo la polizia ha chiamato i familiari per informarli del ritrovamento della madre nel quartiere di Sidi Khalifa, vicino al mare. Il suo cadavere era stato portato all’ospedale di Galaa e doveva essere identificato. Il corpo di Zeinab recava i segni di gravi torture e fori di proiettile, uno dei quali in testa.

Il capo della comunità sudanese di Bengasi, Mohamed al Marioud, ha annunciato l’istituzione da parte delle autorità libiche di una speciale squadra per le indagini. Questi crimini, ha dichiarato, “sono organizzati e sistematici: i carnefici hanno una lista di nomi di persone accusate di praticare la stregoneria e altre attività dannose”. E ha aggiunto: “Potrebbe trattarsi dell’opera di un’entità vicina al governo, ma ancora le indagini e la raccolta delle prove sono in una fase di monitoraggio”.

Circa una settimana più tardi un’altra donna è stata rapita da casa sua, e stavolta si trattava di una donna libica. Le autorità di Bengasi hanno rilasciato le stesse dichiarazioni: un gruppo armato ha fatto irruzione in una casa e ha prelevato una donna di 68 anni per condurla in una località sconosciuta.

Il giocatore di calcio Ahmed al Hassi ha dichiarato che la donna libica rapita era sua madre, Magboula al Hassi, e in un post sulla sua pagina Facebook ha scritto: “Mercoledì 16 ottobre alle 3.45 mia madre è stata prelevata da casa sua a Bengasi, nel quartiere di Busanib, da una banda di uomini armati. Grazie alle telecamere di sorveglianza abbiamo identificato il modello di automobile e abbiamo l’immagine di uno dei rapitori”. Al Hassi ha allegato la foto di uno dei rapitori, e ha aggiunto una frase per rispondere alle accuse dilaganti sui social network secondo cui tutte le donne rapite praticavano la stregoneria. Sua madre esercita la medicina alternativa con un regolare permesso.

Dopo un lungo silenzio i familiari di Zeinab hanno parlato del caso, una volta arrivati in Sudan. Al telefono due figlie di Zeinab hanno raccontato a una rete televisiva libica di aver ricevuto diverse minacce perché smettessero di parlare dell’assassinio della madre sui social network. Hanno spiegato che a differenza di quanto scritto dai giornali, il governo sudanese e in particolare il ministero degli esteri aveva trascurato il loro caso e non aveva fornito alcun aiuto.

Reem Dawood, figlia di Zeinab, ha dichiarato che alcuni abitanti del posto hanno visto e identificato Mahmoud Al Werfalli alla guida degli uomini che hanno catturato sua madre, aggiungendo che le telecamere a circuito chiuso dell’ospedale di fronte al salone di bellezza avevano registrato il rapimento. Il dipartimento per le indagini criminali a Bengasi ha acquisito i video, dichiarando però che le telecamere non erano in funzione. Reem ha affermato che è stato proprio Al Werfalli il primo a torturare la madre per farle confessare di essere una strega e ha aggiunto un dettaglio terrificante: il cadavere di sua madre mostrava dei segni lasciati delle fauci di un leone.

Un omicida in carriera
Il riferimento è al famigerato Mahmoud al Werfalli, comandante di campo delle forze speciali di Al Saiqa nell’Esercito nazionale libico (Lna) di Khalifa Haftar. Al Werfalli è nel mirino della Corte penale internazionale (Cpi) con due mandati di arresto e anche l’Interpol ha diramato un allarme rosso per il suo arresto. Haftar non solo si rifiuta di consegnarlo, ma lo ha addirittura promosso al grado di tenente colonnello lo scorso mese di luglio.

Nato nel 1978 e laureato all’accademia militare libica nel 2009, Al Werfalli è noto per essere un devoto seguace del madkhalismo, una corrente ultraconservatrice salafita. Haftar ha fatto affidamento sulle milizie di madkhaliste e ne ha reclutate parecchie dall’inizio della sua campagna nel 2014. Hanno combattuto per lui dopo aver ricevuto una fatwa da Rabee al Madkhali, il fondatore del loro movimento che vive in Arabia Saudita.

Mahmoud al Werfalli era il leader della milizia salafita Tawhid e si è contraddistinto per la forza e la crudeltà. Nel 2015 Haftar ha deciso di smobilitare questa milizia e assorbirne gli uomini nelle sue forze speciali. Questo provvedimento aveva diversi obiettivi: in primo luogo, voleva dare una risposta ad alcuni dei suoi ufficiali, preoccupati del potere e dell’influenza in crescita dei madkhaliti di Bengasi; in secondo luogo, doveva preservare a livello nazionale la sua immagine di leader di un esercito regolare che lotta contro le milizie e a livello internazionale quella di leader secolare che lotta contro gli islamisti. Il movimento però si è diffuso ancora di più nell’esercito di Haftar e ha rafforzato il controllo esercitato a Bengasi.

All’inizio del 2017 sono cominciati a circolare video e foto di soldati dell’Lna che sfiguravano i corpi di soldati anti Haftar. In sette di questi video si vede Al Werfalli. In tre giustiziava di persona dei detenuti disarmati. In altri tre ordinava ai suoi uomini di giustiziare detenuti, sempre disarmati. Nel settimo video Al Werfalli ordina e prende parte all’esecuzione di venti prigionieri, bendati e legati, in uniforme arancione, una scena molto simile ai video girati dai jihadisti del gruppo Stato islamico.

Al Werfalli compie le esecuzioni in una cornice religiosa chiara e ben visibile: mentre recita giustificazioni dottrinali e religiose, si rivolge ai detenuti chiamandoli khawarij, un’antica setta musulmana. Secondo il madkhalismo, chiunque si opponga ai comandanti è un khawarij e la sua punizione è la morte.

Un’aula dell’università di Bengasi, febbraio 2019. (Esam Omran Al-Fetori, Reuters/Contrasto)

Nella sua esibizione l’atto dell’omicidio viene ritualizzato con l’aggiunta del tocco teatrale di lunghe pause tra un omicidio e l’altro. La brutalità e la facilità con cui uccide avversari militari e politici così come prigionieri di guerra, maltrattandoli e sfigurandone i cadaveri, riflette la mentalità di un uomo che sta conducendo una sua personale battaglia sotto le insegne di Haftar. Davanti agli occhi abbiamo un misto di esteriorità militari e una dottrina che legittima la letalità. Le sue azioni di vendetta condotte su vasta scala e con estrema violenza lo rendono più un terrorista che un comandante militare. Al Werfalli incarna la lotta interna alle forze di Haftar, tra personaggi che si rifiutano di abbandonare la loro guerra santa e la realtà frammentata di un vigilantismo di matrice islamista fuori controllo.

Video accusatori
Pochi giorni dopo che i familiari di Zeinab hanno accusato Al Werfalli di guidare una caccia alle streghe e di aver rapito e ucciso la loro madre, le autorità di Bengasi finalmente hanno fatto dei passi in avanti nelle indagini sul caso.

Il dipartimento di polizia femminile ha fatto trapelare sui social network dei video girati durante l’interrogatorio di una sospettata. Era praticamente una confessione forzata da manuale. Nel video si vedeva una donna in piena crisi di nervi, ripiegata su se stessa sul pavimento, in lacrime, circondata da diversi poliziotti e poliziotte che continuavano a farle pressioni per ottenere dettagli, le mettevano in bocca parole che non aveva detto e le attaccavano addosso il reato. C’erano nove poliziotti provenienti da diverse stazioni di polizia. La insultavano senza sosta, la chiamavano puttana e di tanto in tanto un uomo la colpiva in testa ordinandole di guardare verso l’alto.

I video hanno provocato un’ondata di sdegno sui social. Molti hanno sottolineato come la donna fosse solo un capro espiatorio, dichiarando che la polizia non si era comportata in modo molto diverso dai criminali che avevano torturato e ucciso le donne sudanesi. Qualche giorno dopo Adel Abdul Aziz Omar, capo del direttorato di polizia di Bengasi, ha ordinato di “chiudere la sezione della polizia femminile una volta per tutte e riassegnare agenti e altri membri del personale ad altre stazioni di polizia a Bengasi”. Il decreto sembrava una punizione nei confronti dei poliziotti, non tanto per il loro comportamento o per i loro metodi di indagini, ma per aver lasciato trapelare i video che avevano svelato questi metodi.

L’assenza di qualsiasi possibilità che possano essere condotte delle indagini non compromesse è una realtà che non cambierà presto. Jonathan Swift ha scritto: “Le leggi sono come ragnatele che possono catturare piccole mosche e lasciar passare vespe e calabroni”. Nella nostra saga libica, le linee che separano poliziotti e fuorilegge si intersecano e la legge del potere ha sostituito il potere della legge. A Tripoli se non altro ne siamo consapevoli, ma a Bengasi questo aspetto è molto sottovalutato.

In tutto ciò, “rifugio dei viandanti” non è un soprannome adeguato per Bengasi, e non solo perché reca con sé tracce di razzismo e di una presunta superiorità. Secondo Human rights watch, “i combattimenti scoppiati da maggio 2014 nella Libia orientale hanno costretto migliaia di civili a fuggire da Bengasi e da Ajdabiya. Hanno cercato rifugio nell’area occidentale del paese, dopo che milizie affiliate all’Esercito nazionale libico li hanno accusati di essere terroristi, li hanno incarcerati e attaccati, hanno dato alle fiamme le loro case o le hanno espropriate”. Dopo l’inizio dell’offensiva di Haftar su Tripoli, ad aprile del 2019, 128mila persone sono fuggite dai sobborghi meridionali della città, ma stavolta non si sono diretti verso est per cercare rifugio.

Di Bengasi, madre degli orfani, si dice che è una città colma di depressione, dove i morti camminano per strada alla luce del sole. Si dice anche che è una città fantasma, perché la vera Bengasi è morta in guerra”. – Sadeq Naihoum

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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