25 agosto 2000 13:11

Questo articolo è stato pubblicato il 25 agosto 2000 nel numero 349 di Internazionale.

La verifica fiscale della nostra società cominciò come al solito: sei uomini corpulenti con il passamontagna nero e armati di Ak-47 fecero irruzione nell’ufficio dell’editore. Bloccarono gli impiegati, perlustrarono gli schedari e ordinarono di aprire le casseforti. Cercavano gli stipendi: 250mila dollari in contanti perché il rublo, il governo e il sistema bancario del paese erano appena crollati.

“Erano funzionari che non avevano niente a che fare con il nostro distretto fiscale”, racconta Derk Sauer, il mio capo, un giornalista olandese che in Russia è diventato un grande imprenditore dell’informazione. “Venivano dall’altra parte della città”. Il fiore all’occhiello della nostra società è il Moscow Times, un quotidiano in lingua inglese di cui sono il direttore. La redazione è al numero 24 di via della Verità – la risposta russa a Fleet Street – in un palazzo che una volta apparteneva alla Pravda, il quotidiano più importante dell’ex Unione Sovietica.

Oggi quello che era l’ufficio del direttore della Pravda è occupato dal sottoscritto, un trentunenne avventuriero del North Carolina, e la redazione vanta una moquette blu malconcia, computer nuovi di zecca e una trentina di giornalisti – russi, americani ed europei. Quando a via della Verità arrivò la notizia che una banda di uomini mascherati avevano sequestrato la nostra sede amministrativa e l’editore, alcuni di noi si scambiarono sguardi preoccupati. Dietro sommessa richiesta della mia segretaria vuotai la cassaforte, dove era custodita una somma trascurabile. Poi telefonai al mio capo, il direttore di una delle più grandi case editrici della Russia, la Independent Media, che pubblica fra l’altro le edizioni russe di Cosmopolitan, Playboy e Good Housekeeping. La sua segretaria, terrorizzata, non poteva passarmelo e mi disse che da varie ore nessuno era autorizzato ad andarsene. Riferii la notizia ai cronisti che annuirono preoccupati e si rimisero tranquillamente al lavoro. Nessuna reazione di panico. I raid fiscali sono frequenti, soprattutto fra i mezzi di informazione.

Questo succedeva nell’autunno 1998. Un anno dopo, la seconda guerra in Cecenia stava per concludersi e il Cremlino aveva messo in moto la sua macchina propagandistica per fare in modo che Vladimir Putin, il successore designato da Boris Eltsin, diventasse il nuovo presidente della Russia. E i giornalisti russi cominciavano a denunciare le verifiche fiscali per fini politici. Improvvisamente gli uomini delle tasse tornarono alla grande. Se fino ad allora si erano accontentati di rapide incursioni a caccia di contanti (in totale avevano preso 40mila dollari), questa volta pretendevano una somma che poteva mettere al tappeto la nostra compagnia: nove milioni di dollari. Avevano calcolato questa cifra sostenendo che tutto ciò che può essere comprato e venduto – il libro di cui si parla in una recensione, per esempio, o i vestiti di un servizio fotografico sulle sfilate di moda – era pubblicità, e quindi doveva essere tassato.

Alla fine degli anni Ottanta, quando la glasnost del leader sovietico Mikhail Gorbaciov aveva finalmente permesso ai cittadini sovietici di manifestare le loro idee, il populista Boris Eltsin seppe dare voce allo scontento generale per le ristrettezze della vita sovietica. E quando alcuni esponenti del Partito comunista contrari alle idee liberali di Gorbaciov cercarono di conquistare il potere schierando i carri armati e arrestando Gorbaciov, fu Eltsin a capire che non avrebbero avuto il fegato di andare fino in fondo e a mettersi in piedi su un carro armato per dirlo. Il golpe andò in fumo insieme all’Unione Sovietica. Gorbaciov cedette il Cremlino a Eltsin.

Da quando c’è Putin le aggressioni ai giornalisti organizzate dallo Stato sono continue

Ma Eltsin non ha mantenuto le sue promesse di riformatore democratico. Nei nove anni della sua permanenza al potere la corruzione è dilagata e le libertà civili si sono erose rapidamente. Eltsin era sceso così in basso nell’opinione della gente che per lasciare volontariamente la presidenza ha avuto bisogno di una garanzia ufficiale di immunità per se stesso e “la Famiglia”, come i russi chiamano ironicamente la sua cerchia di accoliti e di parenti. Ha ottenuto questa garanzia da Vladimir Putin, un ex funzionario del Kgb di 47 anni che non sa cosa farsene della libertà di stampa.

Putin e i suoi ministri, ovviamente, sostengono il contrario. Il Cremlino non perde occasione per rilasciare dichiarazioni sostenendo che il presidente non ha intenzione di ledere la libertà di stampa sancita dalla Costituzione russa. “Il Presidente è fermamente convinto che la libertà di parola e la libertà dei mezzi di informazione siano valori irrinunciabili. La stampa libera è un’importante garanzia di sviluppo democratico”, ha affermato il servizio stampa del Cremlino intervistato per questo articolo.

Polizia col passamontagna
Ma i fatti smentiscono le parole. La polizia tributaria di Putin – con i soliti mitra, i passamontagna neri e le tute mimetiche – si è abbattuta con forza sui mezzi di informazione indipendenti, in un paese dove rispettare rigorosamente la normativa fiscale equivale spesso a cedere oltre il 100 per cento dei profitti. Che queste irruzioni siano legalmente discutibili e abbiano motivazioni politiche è apparso con evidenza l’11 maggio scorso, appena qualche giorno dopo l’insediamento di Putin: decine di uomini armati e mascherati hanno assaltato la sede dell’Ntv, l’unica emittente televisiva russa di livello nazionale che non appartiene allo Stato. Il 13 giugno l’imprenditore dei media Vladimir Gusinskij è stato arrestato e incarcerato per tre giorni in circostanze che i suoi avvocati hanno definito “irregolari”. Gusinskij, un insigne uomo d’affari ebreo, possiede il gruppo Media Most, che comprende alcune riviste, un quotidiano, una radio e l’emittente televisiva Ntv.

Dopo essersi presentati come polizia tributaria, dopo qualche ora i commandos si sono tolti dalla schiena la scritta “polizia tributaria” e improvvisamente l’irruzione si è trasformata nel primo atto di un’indagine penale. Molti non hanno creduto a nessuna delle due versioni. Fra questi Mikhail Gorbaciov, che ha accettato di dirigere una commissione pubblica per difendere l’Ntv. “I media non statali, liberi da interferenze burocratiche arbitrarie, sono una delle garanzie necessarie ed essenziali della democrazia”, ha dichiarato l’ex leader sovietico in quell’occasione. Intanto, la versione diffusa dalle emittenti televisive alleate di Putin è che l’Ntv è controllata da spie israeliane.

Secondo Elena Bonner, stiamo assistendo alla nascita di “una versione modernizzata dello stalinismo”

L’irruzione nella sede dell’Ntv non è un episodio isolato. Da quando Putin è salito al potere le aggressioni ai giornalisti sponsorizzate dallo Stato sono un fatto comune. Gli agenti federali hanno rinchiuso il giornalista Andrej Babitskij in un campo di concentramento prima di venderlo a un gruppo di sequestratori. Hanno cercato di incastrare il figlio di un altro giornalista accusandolo di essere un borseggiatore. Hanno tirato giù dal letto un terzo giornalista, Aleksandr Khinshtejn, provando a farlo ricoverare nel reparto psichiatrico di un’altra città con l’accusa di non aver compilato per intero i moduli per la patente di guida nel 1997.

Putin ha anche sostenuto che nel movimento ambientalista si sono infiltrate delle “spie”. In un caso che Putin ha seguito personalmente per oltre un anno, un giornalista del settore, Aleksandr Nikitin, è stato accusato di tradimento perché avrebbe violato alcuni regolamenti segreti documentando la negligenza del governo nel campo delle scorie nucleari. I regolamenti erano così segreti che in un primo momento neppure gli avvocati di Nikitin sono stati autorizzati a conoscerli, talmente segreti che persino i pubblici ministeri hanno ammesso di non aver mai letto né visto la normativa su cui si basavano le loro accuse.

Il nuovo ministro dell’Informazione di Putin ha chiuso un’emittente televisiva e proibito ai mezzi di informazione di pubblicare interviste ai ceceni, compreso il loro presidente eletto, che accusa la cricca di Eltsin di aver organizzato la guerra per favorire la vittoria elettorale di Putin nel caos che si sarebbe venuto a creare. Gli alleati di Putin in Parlamento hanno bloccato un’inchiesta su queste accuse e Putin ha dichiarato di ritenere “immorale” anche solo concepire simili idee. In compenso Putin non vede niente di immorale nel controllo esercitato dalla Famiglia sul Canale 1 del Cremlino, l’unica stazione televisiva che riesce a raggiungere tutte le case russe – un monopolio dell’etere ereditato direttamente dall’Unione Sovietica. Con Putin, Canale 1 utilizza l’etere per istigare i sentimenti nazionalisti e schernire i rivali del nuovo presidente definendoli omosessuali ed ebrei. Alcuni parlano apertamente di fascismo e Stato di polizia.

Negli uffici del canale Ntv a Mosca, 16 luglio 2000. Il giornalista Yevgeny Kiselyov legge il quotidiano Izvestija.
(Oleg Nikishin, Liaison/Getty Images)

“Con Putin è iniziata una nuova fase nell’introduzione di una versione modernizzata dello stalinismo ”, ha detto Elena Bonner, 77 anni, attivista dei diritti umani e vedova del premio Nobel dissidente Andrej Sakharov, in una lettera aperta distribuita ai mezzi di informazione a marzo. “Quasi tutti i giornali e le emittenti televisive sono sotto il controllo della Famiglia e di altri gruppi di pressione corrotti, il che assicura una sorta di autocensura dei mass media nell’interesse di queste autorità”. Ma altri – compresi il governo degli Stati Uniti e molti leader occidentali – continuano a elogiare il nuovo governo Putin: giovane, energico e liberale in economia. Per sentire un’opinione originale sono andato a trovare Oleg Panfilov, un noto attivista della libertà di stampa. La famiglia di Panfilov ha vissuto una di quelle esistenze piene di paradossi che qui sono quasi la norma: negli anni Trenta i Panfilov vennero dichiarati “nemici del popolo” e il padre di Oleg, che all’epoca aveva solo 14 anni, fu spedito in un campo di prigionia nel Tagikistan sovietico, vicino alla frontiera con l’Afghanistan. Dopo la liberazione rimase in Tagikistan, si sposò ed ebbe un figlio. Nel 1992 Oleg, che era diventato un giornalista, venne dichiarato “nemico del popolo” dal nuovo regime installato dal Cremlino in quello che ormai era diventato un Tagikistan indipendente, e chiese asilo a Mosca. “Non mi sono preoccupato di chiedere la cittadinanza russa, anche se in effetti sono russo. Penso che sia meglio essere cittadino della mia repubblica delle banane che cittadino della nazione che mi ha costretto ad abbandonare il paese dove sono nato”, spiega.

Panfilov, che oggi ha 43 anni, è stato il rappresentante moscovita del Committee to Protect Journalists (Cpj), un’organizzazione senza fini di lucro con sede a New York che promuove la sicurezza dei giornalisti in tutto il mondo. Mentre mi versa una tazza di tè, gli chiedo di un’inchiesta nazionale sulle libertà dei media condotta dal sindacato dei giornalisti e pubblicata nell’ottobre 1999, che concludeva: “In Russia la libertà di stampa non esiste”. Panfilov risponde citandomi dei dati statistici secondo cui “l’80 per cento circa di tutte le tipografie e il 90 per cento circa di tutte le emittenti radiotelevisive appartengono allo Stato” e quindi sono armi nelle mani dei famigerati governatori regionali per mettere a tacere il dissenso.

Una federazione di dittature
Anche se la Russia non è una dittatura, basta una visita nelle province per scoprire una federazione di minidittature. Le 89 regioni del paese sono governate da uomini con poteri ampi e autocratici. Alcuni sono solo lievemente migliori dei boss della criminalità organizzata, capaci di imporre un contratto a un giornalista; altri sono più sottili nel procurarsi servizi favorevoli e vendicarsi per quelli ostili.

“Il meccanismo generale – e i casi sono moltissimi – funziona così”, spiega Panfilov. “Un giornale indipendente di provincia pubblica un articolo dove si critica l’operato del governatore. Il governatore solleva la cornetta del telefono e chiama il direttore della tipografia, perché la tipografia dipende dal governatore. E dice: ‘Questo giornale deve essere punito’. Il direttore della tipografia sa già cosa fare. A sua volta solleva la cornetta del telefono e chiama il direttore del giornale indipendente in questione e gli dice: ‘Domani le tariffe elettriche aumentano, il prezzo della carta sale, quello dell’inchiostro è alle stelle, perciò il costo della stampa aumenterà di tre o quattro volte’. Tutto qui. E questa è la fine del nostro giornale indipendente”.

I funzionari più potenti possono utilizzare i fondi pubblici per dotarsi di media personali

Quando i media nazionali ospitano servizi critici o scomodi, a volte in provincia non vengono distribuiti del tutto. Di recente, un giornale è stato addirittura riscritto: il 14 aprile l’Izvestija aveva pubblicato un articolo feroce contro il governatore di Saratov, una regione del Volga. Questo governatore, scriveva l’Izvestija, non mantiene mai le promesse e a marzo, per garantirsi la rielezione, ha cancellato il nome degli avversari dalle schede e falsificato i risultati delle votazioni. Ma a Saratov le edizioni stampate in loco riferivano che il governatore “a volte” mantiene le promesse. Quanto ai brogli elettorali, osservavano semplicemente che nel corso della consultazione “secondo i principali sfidanti del governatore, si sarebbero verificate delle violazioni legali”.

Già da tempo le province russe sono il tetro scenario di storie raccapriccianti. Nella regione più occidentale, i giornalisti critici del governatore Leonid Gorbenko sono stati picchiati selvaggiamente e i loro uffici sono stati fatti esplodere. Gorbenko è famoso perché durante le interviste televisive va su tutte le furie e scaraventa per terra i microfoni. Ed è così in tutta la Russia, fino al porto di Vladivostok, sull’Oceano Pacifico, dove un giornalista radiofonico ha raccontato che i rapitori gli hanno legato le mani dietro la schiena e poi lo hanno picchiato e bruciato con le sigarette. Secondo gli investigatori federali i suoi aguzzini erano legati al vicegovernatore della regione.

Ma i governatori hanno anche altre armi. Per esempio le querele. L’articolo 151 del codice civile russo consente a una parte che si considera lesa di sporgere querela per danni all’onore e alla dignità di un cittadino e non specifica che per un giornalista la verità è una difesa. Nel 1997, come direttore del St. Petersburg Times, una consorella del Moscow Times, ho avuto il piacere di conoscere di persona le implicazioni di questa norma. Una società mista russo-statunitense, che intendeva aprire una paninoteca nella metropolitana, si era spaccata fra mille polemiche e alla fine un tribunale russo aveva stabilito che il partner russo, Vadim Bordjug, doveva pagare 1,2 milioni di dollari agli americani. Quando pubblicammo la notizia Bordjug ci citò in giudizio per danni al suo onore e alla sua dignità. Sostenne che per la sua reputazione era negativo che il grande pubblico venisse informato della sua sconfitta in tribunale e questo, ovviamente, è innegabile. Il procedimento resta aperto e non è stata ancora emessa una sentenza. Le querele per danni all’onore e alla dignità sono diventate un’industria. Secondo la Fondazione per la difesa della glasnost, una versione russa del Cpj, i giudici sono disposti a mandare avanti questi procedimenti nel 97 per cento dei casi e a emettere sentenze contro i mezzi di informazione il 70 per cento delle volte.

Poi ci sono i sussidi federali per i media ubbidienti, assegnati dai governatori e dal Cremlino. Ci sono anche migliaia di concorsi giornalistici finanziati dallo Stato, come il premio in denaro offerto nel 1996 dal governatore di Nizhnij Novgorod per il miglior servizio sulla campagna per la sua rielezione. I governi e i media occidentali hanno incoraggiato e applaudito la privatizzazione dei beni statali dell’era sovietica come le compagnie petrolifere, ma nessuno ha detto una parola sulla privatizzazione delle tipografie o sulla prassi dei funzionari pubblici di utilizzare i soldi dei contribuenti per dotarsi di mezzi di informazione personali. Il sindaco di Mosca Jurij Luzhkov, per esempio, ora ha un’emittente televisiva nazionale, la Tv Centrale, finanziata dal bilancio comunale e fedele fino in fondo al solo Luzhkov. La Televisione di San Pietroburgo, le cui finanze sono state prosciugate dalla corruzione, è diretta ufficialmente da un vice sindaco della città. Anche la Banca centrale russa ha usato il denaro pubblico per fondare una testata nazionale, Vremja Mn. Il giornale non ospita molti articoli sulla corruzione della Banca centrale, ma in nessun altro posto si possono leggere servizi più favorevoli a Michel Camdessus, l’ex direttore del Fondo monetario internazionale che ha continuato a mandare prestiti di miliardi di dollari anche se la Banca centrale russa ammette di aver parcheggiato per anni le riserve di valuta pregiata del paese in una compagnia di facciata nelle Isole della Manica, la Fimaco, che non ha né dipendenti né locali.

Menzogne elettorali
Quattro anni fa, durante la campagna elettorale per la presidenza, seguivo lo sfidante comunista di Eltsin, Ghennadij Zjuganov. Era una squadra malinconica: Zjuganov raramente si prestava a pezzi efficaci e, anche quando capitava, i giornalisti potevano aspettarsi che le loro storie venissero affondate o riscritte nell’ambito della campagna di disinformazione nazionale orchestrata dal Cremlino. Una collega mi disse che i suoi articoli su Zjuganov non erano semplicemente corretti, ma le venivano restituiti addirittura intatti con un messaggio timbrato sul testo: “Contraddice la Politica sull’informazione”.

Un pomeriggio del maggio 1995 vidi Zjuganov al lavoro con una folla di studenti e professori molto interessati in un istituto professionale sulle montagne degli Urali, l’equivalente russo del Midwest degli Stati Uniti. Raccontò di aver ottenuto il programma dettagliato di un’operazione segreta per distruggere l’Unione Sovietica che era stata condotta – apparentemente con successo – dal presidente John Kennedy. Secondo il progetto, disse Zjuganov, la Cia doveva assumere il controllo dei mass media dell’Unione Sovietica. Gli organi di informazione del paese vennero utilizzati per incoraggiare, fra l’altro, la mancanza di rispetto per gli anziani. Con il suo stile vago e contorto, Zjuganov lasciava capire che la Cia continuava a controllare la televisione russa. In fondo alla sala, i miei colleghi e io sbarravamo gli occhi e ci scambiavamo battutine sarcastiche. Ma studenti e professori applaudivano spesso e con calore.

Quella stessa sera, tornato in albergo, mi sintonizzai su una radio locale. Lo speaker annunciò che Zjuganov era in città, poi proseguì raccontando che il candidato non aveva potuto prendere la parola all’istituto professionale perché gli studenti lo avevano scacciato dalla tribuna. Non era vero niente. Non sorprende che Zjuganov credesse al controllo della Cia sui mass media.

Questa era la politica presidenziale nel 1996. Nella corsa alla presidenza del marzo 2000 la situazione è ulteriormente peggiorata. Canale 1 ripeteva biecamente che i “gay” avrebbero votato in massa contro Putin e a favore del maggiore esponente liberale del paese, Grigorij Javlinskij, e conduceva un attacco ignobile contro l’emittente televisiva indipendente Ntv perché diretta da un ebreo. Allo stesso tempo, Canale 1 e la sua banda evitavano le notizie sui campi di concentramento russi e sui massacri di civili compiuti dalle truppe terrestri nel territorio ceceno controllato dai federali. Canale 1 si limitava a ignorare o deformare i fatti, oppure dava ampio spazio alla tesi ufficiale: i media occidentali si affidano a corrispondenti ceceni e quindi ricevono informazioni non obiettive. Ben presto il conduttore più famoso di Canale 1, Serghej Dorenko, cominciò a suggerire che era giunto il momento di dichiarare semplicemente che in Cecenia non c’erano civili: erano tutti bersagli legittimi. “Se non c’è una popolazione civile, la guerra finirà in due settimane”, disse Dorenko. “La questione non è l’effettiva presenza o meno di una popolazione civile: la questione è che cosa ne pensiamo noi”. In altri termini, perché non ucciderli tutti?

Attacchi su ordinazione
Dorenko, con la sua profonda voce da basso e il suo umorismo freddo, impassibile, è il giornalista più famoso del paese. È anche il migliore esempio della tendenza più inquietante della professione: la disponibilità di troppi giornalisti a lanciare attacchi su ordinazione. Dorenko lavora per Boris Berezovskij, un magnate del petrolio e dei media loquace e tendente alla calvizie, membro del Parlamento ed esponente di primissimo piano della cerchia del Cremlino. Berezovskij probabilmente è l’uomo più potente della Russia, anche perché è lui a controllare Canale 1. Lui e Dorenko hanno usato l’emittente per conquistare la gente a Putin e alla sua guerra – e per annientare i suoi rivali.

Quando, per esempio, si è diffusa la notizia che il sindaco di Mosca Luzhkov pensava di candidarsi alla presidenza, Dorenko ha distrutto la sua reputazione con particolare entusiasmo. Riferì che il sindaco nutriva simpatie per Scientology, che aveva mentito sugli aiuti a un ospedale pediatrico, che era implicato in un oscuro affare immobiliare a Marbella, che aveva ammazzato un uomo d’affari statunitense e via diffamando. Luzhkov lo ha citato per calunnia e ha vinto la causa (150mila rubli, circa 12 milioni di lire).

“In Russia la libertà di parola non esiste.
Prima era controllata dai comunisti, oggi dagli oligarchi”

Dorenko ha sostenuto che la vittoria morale era sua e ha continuato ad attaccare ferocemente il sindaco, usando immagini lavorate digitalmente che presentavano Luzhkov nelle vesti di Mussolini o di Monica Lewinsky, con tanto di perle. Quando abbiamo contattato Dorenko, nel dicembre scorso, lui non ha risposto al telefono, ma ha rilasciato un’intervista al Moscow Times via email negando di prendere ordini da Berezovskij.

Ma all’incirca nello stesso periodo la rivista Novaja Gazeta – un combattivo settimanale legato a Jabloko, un importante partito politico nazionale che sposa valori liberali ed è favorevole al libero mercato e alla democrazia – ha pubblicato la trascrizione di un colloquio telefonico fra Dorenko e Berezovskij. I due discutevano, fra l’altro, di come affibbiare a Luzhkov un omicidio. A sorpresa, prima Berezovskij e poi Dorenko hanno ammesso che la trascrizione era autentica. “Non voglio giustificare me stesso o altri”, ha detto Berezovskij in una conferenza stampa difendendo il suo ruolo di burattinaio. “È chiaro che si è trattato di una guerra d’informazione particolarmente aspra. Era logico e inevitabile”.

Berezovskij e altri potenti – ribattezzati “oligarchi” per il controllo ferreo e soffocante che esercitano sulla vita politica del paese – comprano gli organi di informazione indipendenti e ne controllano il contenuto da anni. E hanno avuto notevole successo. “Oggi in Russia la libertà di parola non esiste”, dice Aleksandr Zhilin, colonnello in pensione ed ex redattore per le questioni militari del settimanale Moskovskie Novosti. “Prima era sotto il controllo dei comunisti, ora è sotto quello degli oligarchi”.

Un giornalista ha accusato il Cremlino di alto tradimento. È stato deportato per “problemi psichiatrici”

Questo genera dei paradossi deprimenti. Lettori e spettatori si vedono offrire reportage indignati sul riciclaggio del denaro sporco e sulla minaccia che questo rappresenta per la sicurezza nazionale in organi di informazione controllati da uomini indagati proprio per riciclaggio del denaro. Oppure sono caldamente invitati ad adempiere il loro dovere civico partecipando alle elezioni nazionali da media che hanno deliberatamente evitato di dire qualcosa sui candidati.

Non solo Babitskij
L’Ntv, sottoposta a continue intimidazioni, ha seguito spesso le direttive del Cremlino sulle vicende in Cecenia. Di conseguenza per un certo periodo l’unica voce che si poteva ascoltare via etere per avere una visione diversa della guerra era quella di Andrej Babitskij di Radio Libertà, un’emittente finanziata dagli Stati Uniti.

Poi, a metà gennaio, Babitskij è stato messo a tacere. Lo hanno arrestato nei pressi di Grozny, la capitale cecena, ed è scomparso. Gli agenti federali lo hanno rinchiuso in un campo di concentramento prima di venderlo ai banditi. Putin lo ha definito un traditore.

Ma mentre Babitskij è stato al centro dell’attenzione internazionale, un caso analogo e meno noto è quello di Khinshtejn, un giornalista d’assalto del Moskovskij Komsomolets. Khinshtejn aveva scritto un articolo lasciando intendere che il Cremlino si era macchiato di alto tradimento. Gli agenti federali si sono presentati a casa sua di buon mattino – la stessa settimana in cui avevano fermato Babitskij – e lo hanno tirato giù dal letto dichiarando che volevano portarlo in un’altra città per una visita psichiatrica. Hanno giustificato il loro comportamento dicendo che nel 1997 Khinshtejn non aveva riempito correttamente la domanda per la patente di guida, omettendo alcune informazioni sulla storia della sua salute mentale. Khinshtejn ha chiamato l’avvocato che è riuscito a tenere in scacco la polizia per un giorno. Poi si è nascosto.

La tesi esposta da Khinshtejn nel suo articolo – che la lunga mano del Cremlino aveva fatto esplodere alcuni palazzi per favorire l’elezione di Putin in un clima di isteria bellica – non è campata per aria. È stata approfondita e sostenuta da diversi importanti giornalisti e uomini politici del paese.

Uno di questi era Artjom Borovik, un giornalista che ha utilizzato il suo impero mediale Sovershenno Sekretno (Top secret) per riprendere il discorso dal punto in cui Khinshtejn lo aveva lasciato. In particolare, il giornale Versija, di Borovik, aveva approfondito l’idea che dietro le bombe terroristiche che nel settembre 1999 hanno distrutto quattro palazzi uccidendo quasi 300 persone potesse esserci una manovra del governo. Ma a metà marzo Borovik è morto perché il suo aereo è precipitato pochi secondi dopo essere decollato dall’aeroporto di Mosca. Nell’ondata di appassionati commenti seguiti all’incidente, i colleghi hanno dichiarato che secondo loro la morte di Borovik non solo non era accidentale, ma si poteva considerare una conseguenza diretta dei suoi articoli. L’inchiesta ufficiale, però, ha parlato di ghiaccio sulle ali e di un errore del pilota.

La stessa settimana dell’incidente aereo, misteriosi pirati informatici sono penetrati nel sistema informatico interno della Novaja Gazeta e hanno distrutto un intero numero con articoli che sviluppavano ulteriormente l’ipotesi che gli attentati terroristici e la guerra in Cecenia fossero orchestrati dal Cremlino. Le storie più forti sulle accuse di corruzione a Putin e al suo gabinetto in seguito sono state ristampate, ma gli articoli che alludevano alla possibilità che la guerra fosse stata costruita a tavolino non sono più usciti.

Infine c’è l’Ntv che, chiaramente spaventata, passa da reportage deferenti su Putin e la sua campagna militare in Cecenia a servizi critici e ammissioni sincere sui costi della guerra. Persino l’esistenza di una debole televisione privata come l’Ntv, che raggiunge cento dei 148 milioni di abitanti della Russia, è un bastione della democrazia. Ma questo bastione sta crollando. Una banca statale ha chiesto la restituzione di un prestito di 42 milioni di dollari concesso all’emittente e un alto funzionario del Cremlino ha definito Vladimir Gusinskij (il direttore della società che controlla l’Ntv, la Media Most) un “batterio”.

Mikhail Lesin, ministro dell’Informazione, vuole “difendere lo Stato dai liberi media”

E poi ci sono state le pesanti irruzioni fiscali, come quella che recentemente ha colpito l’Ntv. Vengono fatte da tempo, alimentate dalle affettuose esortazioni del governo americano e del Fondo monetario secondo cui il maggiore problema della Russia in tutti questi anni è stata l’evasione fiscale che, secondo i calcoli del Cremlino, equivale a circa la metà del bilancio federale.

Subito dopo l’invasione della Cecenia, nel 1999, le società di media hanno riferito di essere state oggetto di verifiche fiscali come quella che è costata alla mia compagnia una bolletta di nove milioni di dollari. Al Moscow Times abbiamo continuato a lavorare come sempre, ma sapevamo che nei tribunali russi la nostra società stava lottando per sopravvivere. 

Cambiamento di rotta
Il Moscow Times esce in inglese e ha una diffusione di appena 35mila copie. Perciò come direttore ho avuto la soddisfazione di sentirmi rispettato in certi ambienti e al tempo spesso mi sono lasciato cullare dalla sensazione che potevamo scrivere tutto quello che volevamo perché solo i potenti all’estero si sarebbero accorti di quello che scrivevamo in inglese sulla corruzione o sulla guerra in Cecenia. Così, almeno, pensavo prima che Putin venisse consacrato come successore di Eltsin. Ora che le nostre controparti russe si stanno nervosamente sottomettendo alla nuova linea del Cremlino, cominciamo a sentirci esposti.

Fare le valigie mi sembra l’opzione migliore ogni volta che sento le osservazioni di Mikhail Lesin, il nuovo ministro dell’Informazione del Cremlino. Lesin è noto soprattutto per la sua preoccupazione sulla necessità di “difendere lo Stato dai liberi mass media”. A settembre Lesin ha difeso lo Stato staccando la spina alla televisione di San Pietroburgo a titolo di punizione. Ha spiegato il suo disappunto per i servizi trasmessi dall’emittente accusandola, fra l’altro, di aver detto che la bandiera nazionale “induce alla sonnolenza”. Ha detto anche che le leggi elettorali non consentono critiche ai partiti politici durante la campagna elettorale. Quest’opinione è stata ribadita qualche mese dopo dal presidente della Commissione elettorale centrale, Aleksandr Veshnjakov, il quale, sottolineando che secondo la legge solo i candidati registrati hanno il diritto di fare campagna elettorale, ha dichiarato che ritrarre un determinato candidato in una luce positiva o negativa può essere considerato propaganda politica, e i mezzi di informazione che violavano questa norma correvano il rischio di essere chiusi. Canale 1 ha risposto invitando Veshnjakov a un’intervista in diretta. “Mi sta dicendo che se sono a conoscenza del fatto che il candidato X ha rubato il portafoglio a qualcuno sul tram non posso dare la notizia perché è candidato?”, ha chiesto incredulo il conduttore di Canale 1. La risposta di Veshnjakov è stata evasiva, ma il succo era che no, non può dare la notizia.

Questa è la situazione dei mezzi di informazione in Russia oggi: piccole bugie intervallate da menzogne mozzafiato. Non è giornalismo e non è libero.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

Da sapere
I media e il sottomarino

L’affondamento del sottomarino Kursk, con la morte dei 118 uomini dell’equipaggio, è stato affrontato con franchezza dai mezzi d’informazione russi. Tv e giornali si sono permessi critiche tanto aspre quanto inconsuete all’operato del presidente Vladimir Putin, responsabile secondo molti del grave ritardo nei soccorsi. “Sostenendo quasi compattamente l’avventura cecena di Putin, la stampa russa aveva scelto la via del conformismo, creando un blocco unico con il nuovo capo di Stato”, commenta Hélène Despic-Popovic su Libération. “Con la tragedia del Kursk i media si sono sentiti traditi dall’uomo al quale avevano dato il loro appoggio. Non si erano mai visti dei giornalisti tanto aggressivi nel porre le loro domande ai portavoce ufficiali. Non si erano mai viste immagini così rivelatrici dell’arroganza del potere. Non avendo accesso a fonti ufficiali, i giornalisti si sono scatenati per le strade di Murmansk, intervistando gli abitanti e diffondendo il loro disgusto: ‘Sembra di essere ancora in Unione Sovietica’”.

Questo articolo è stato pubblicato il 25 agosto 2000 nel numero 349 di Internazionale.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it