Quando Warda, 18 anni, ha lasciato la sua città, Idlib, in Siria, sapeva che ad attenderla ci sarebbe stato un viaggio lungo e difficile; ma non poteva immaginare che il fatto di essere una giovane donna avrebbe aumentato i pericoli da affrontare.
Negli ultimi quattro mesi la ragazza ha vissuto in un campo profughi improvvisato vicino al porto del Pireo, ad Atene, con il suo fidanzato e sei familiari che hanno compiuto insieme a lei il pericoloso viaggio verso la Grecia attraverso la Turchia. Costretta a condividere la tenda con i suoi genitori e a usare bagni misti, si sente soffocata dall’assenza di riservatezza. Inoltre è terrorizzata dagli uomini del campo; ci sono molti afgani e siriani, giovani e soli, che se ne stanno seduti in gruppetti a fare commenti su tutte le donne che vedono.
“È difficile per tutti stare qui, ma soprattutto per le donne”, dice Warda che, come molti richiedenti asilo, preferisce non rivelare il suo nome completo.
Le donne sono esposte alle molestie da quando lasciano il loro paese fino al loro arrivo in Europa
“Agli afgani piace molestare le ragazze che si trovano nel campo. A loro non importa che io sia fidanzata o musulmana”, racconta la ragazza. “Quando ci infastidiscono, non abbiamo nessuno a cui rivolgerci. È davvero spaventoso”.
Secondo Amnesty international, le richiedenti asilo sono esposte alla violenza, allo sfruttamento e alle molestie sessuali da quando lasciano l’Iraq e la Siria fino a quando arrivano in Europa.
L’8 marzo 2016, il Parlamento europeo ha pubblicato delle linee guida per proteggere i diritti delle richiedenti asilo e delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender che scappano dalle persecuzioni. Nel documento si raccomanda l’utilizzo di bagni e dormitori separati, ma in molti campi non esistono e le donne devono condividere gli ambienti con gli uomini.
Incapace di smettere di piangere
Ahmed Hammoud e la sua famiglia sono stati costretti a dormire in un parcheggio mentre facevano i colloqui previsti per la domanda di asilo presso l’Ufficio di supporto europeo per l’asilo (Easo) di Atene.
A causa delle cattive condizioni di salute del padre di Hammoud, che aveva da poco avuto un infarto, avevano richiesto un alloggio in cui dormire durante i giorni di permanenza in città, ma gli è stato risposto che non ce n’era neanche uno disponibile. Per due notti hanno dormito all’addiaccio, poi sono tornati sull’isola di Lesbo e al campo profughi di Kara Tepe, che dà priorità alle famiglie e alle persone più vulnerabili.
“La prima notte è stata molto brutta, mio padre stava molto male. La seconda, però, è stata ancora peggio”, ricorda Hammoud. “Mi sono alzato sentendo le urla e i pianti della mia sorellina. Ho pensato subito che le avessero fatto del male, ma in realtà la vittima era stata mia madre”. Quando, pochi attimi dopo, Hammoud ha trovato sua madre, quattro uomini la stavano aggredendo. Sono scappati prima di poter essere identificati. “Stavano cercando di violentarla”, dice, con immensa tristezza. “Ma questo non gli bastava. L’hanno anche tagliata e bruciata. Da allora mia madre non ha più smesso di piangere”.
Hammoud racconta che il giorno dopo, quando con la sua famiglia si è rivolto all’Easo per chiedere aiuto, si è sentito rispondere che non c’era niente da fare. Poi hanno chiamato i poliziotti per accompagnarli fuori dall’edificio.
L’ignoranza degli operatori umanitari e della polizia
Secondo le ultime stime dell’Onu, il 55 per cento dei migranti passati per la Grecia a gennaio sono donne e bambini, più del doppio rispetto allo scorso anno. Da quando è arrivata a Lesbo, lo scorso mese di marzo, Mariam Hussain, di 17 anni ha più volte cercato di separarsi dal padre, un uomo che da tempo la sottopone ad abusi psicologici. Dopo mesi di maltrattamenti e tentativi falliti di essere assegnata in un altro campo, ha cercato di uccidersi.
“Ero molto depressa. Lo sono ancora”, dice Mariam, spiegando anche che gli operatori del campo non hanno fatto nulla quando ha chiesto di essere separata dal padre. “Anzi, gli hanno raccontato tutto”.
Hussain sta riponendo tutte le sue speranze nel compimento di 18 anni, a settembre. “Non vedo l’ora che arrivi il 12 settembre. Spero di potermi liberare finalmente di lui”, dice.
Iota Peristeri, che lavora al Servizio greco per i rifugiati di Atene, racconta di essere stata molto colpita dalla storia di Hussain. Non aveva la minima idea che un numero così alto di profughe subissero violenze durante il processo per la richiesta di asilo.
“Normalmente, una persona come Mariam sarebbe dovuta andare in una delle sedi regionali dell’Easo e firmare una dichiarazione ufficiale in cui esprime la volontà di essere separata da suo padre, tutto qui ”, racconta Peristeri. “Un processo che dovrebbe essere rapido e indolore”.
La polizia
Molti richiedenti asilo, comprese le donne, raccontano anche di avere subìto violenze da parte dei poliziotti in Grecia, un’accusa che la polizia ufficialmente respinge. La profuga siriana palestinese Salaam, 20 anni, ha raccontato che un giorno, mentre stava andando a far visita a un’amica in un altro campo, è stata colpita da un poliziotto che cercava di impedirle di entrare nel campo. “Mi hanno colpito così forte che mi hanno rotto una costola. Sono dovuta rimanere a letto per un mese”, racconta.
Peristeri sostiene che quella è stata la prima volta in cui ha sentito parlare della violenza della polizia. “La cosa mi ha molto sorpresa”, dice. “Ma la verità è che noi non facciamo mai visite accurate alle persone né sopralluoghi nei campi”.
Questo articolo è stato pubblicato da Thomson Reuters foundation.
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