20 aprile 2020 17:13

L’Islanda non è stata risparmiata dalla pandemia di covid-19. Quest’isola di 364mila abitanti, dotata di un’unica porta d’ingresso – un aeroporto internazionale dove passano sette milioni di passeggeri all’anno – ha registrato 1.773 casi confermati. Alcuni ricercatori dell’università d’Islanda e dell’azienda biofarmaceutica deCode genetics-Amges, cha ha finanziato lo studio, hanno effettuato una campagna di test i cui risultati sono stati pubblicati il 14 aprile sul New England Journal of Medicine.

Ne emerge che i bambini di meno di dieci anni e le donne hanno meno possibilità di risultare positivi al test per il Sars-cov-2 rispetto agli adulti e agli uomini. Si tratta di dati che non mancheranno di essere analizzati in Francia nella prospettiva della fase due.

Il primo caso di covid-19 sul territorio islandese è stato confermato il 28 febbraio, e riguardava una persona di ritorno dall’Italia settentrionale, prima che le autorità islandesi dichiarassero questa zona a rischio. Il 19 marzo, Reykjavík ha annunciato che qualsiasi viaggio fuori dell’isola sarebbe stato considerato altamente a rischio di contagio.

Campagna in tre fasi
Con l’approvazione del Comitato nazionale di bioetica, i ricercatori hanno provato a quantificare la presenza dell’infezione da Sars-cov-2 in Islanda, il che dovrebbe permettere di valutare l’effetto delle misure intraprese contro il covid-19. In totale, è stato sottoposto a questi test il 6 per cento degli abitanti, una percentuale che fa degli islandesi una delle popolazioni più controllate al mondo.

La campagna si è svolta in tre fasi, durante le quali sono state sottoposte ai test 22.279 persone. Alcune analisi mirate sono state realizzate tra il 31 gennaio e il 31 marzo su 9.199 individui considerati a elevato rischio d’infezione perché mostravano sintomi rivelatori, perché erano tornati da un viaggio in un paese considerato ad alto rischio, o perché erano entrati in contatto con una persona infetta.

Come previsto, la proporzione di test positivi è stata più alta tra le persone a rischio sottoposte a esami mirati

Le due fasi successive sono state rivolte a islandesi senza alcun sintomo, se non quello di un normale raffreddore, frequente in quel periodo dell’anno. Inizialmente i cittadini sono stati invitati a iscriversi per eseguire un accertamento che ha riguardato più di 10.797 soggetti, tra il 13 marzo e il 1 aprile. In seguito è stato scelto un campione di 2.283 persone per la terza fase di test, che si è svolta tra il 1 e il 4 aprile. Ogni persona risultata positiva al test è stata isolata e intervistata a proposito dei suoi contatti, i quali, a loro volta, sono stati rintracciati e invitati a mettersi in quarantena.

Come previsto, la proporzione di test positivi si è rivelata molto più alta tra le persone ad alto rischio sottoposte a esami mirati: più del 13 per cento, rispetto allo 0,8 e allo 0,6 per cento delle due campagne rivolte alla popolazione in generale – su invito esplicito e su campioni casuali. In questi due ultimi gruppi, il 43 per cento delle persone risultate positive ai test non presentava alcun sintomo al momento del prelievo.

Lenta diffusione
L’analisi in funzione dell’età permette di rilevare che, nel quadro dei test mirati, i bambini di meno di dieci anni presentano un numero di risultati positivi inferiore di due volte a quello degli adulti: il 6,7 per cento rispetto al 13,7 per cento. Tra le persone di vent’anni o più, la proporzione di test positivi cresce gradualmente con l’aumento dell’età.

La differenza è ancora più marcata tra gli individui senza sintomi scelti nella popolazione generale: nessuno degli oltre ottocento bambini di meno di dieci anni è risultato positivo ai test, contro i cento positivi rilevati tra i circa dodicimila partecipanti di un’età di dieci anni o più.

Come per i bambini di meno di dieci anni, i test positivi tra le donne sono risultati meno frequenti che tra gli uomini, sia tra i sintomatici (11 per cento rispetto al 16,7 per cento per le persone di sesso maschile) sia nel gruppo dei test non mirati (lo 0,6 per cento invece dello 0,9 per cento).

“Pensavamo che i bambini svolgessero un ruolo importante nella propagazione dell’infezione, ma lo studio islandese mostra che l’incidenza del Sars-cov-2 tra loro è debole, un elemento che si allinea ai dati cinesi. Questo potrebbe rappresentare un argomento a favore della riapertura delle scuole”, spiega il professor Antoine Flahault, direttore dell’Istituto di sanità globale presso l’università di Ginevra.

Il professor Arnaud Fontanet (dell’istituto Pasteur), che fa parte del consiglio scientifico per il covid-19 creato dal governo francese, è d’accordo e si spinge oltre: “Questo studio ci fornisce informazioni sulla circolazione del virus tra i bambini e mostra che tra loro il Sars-cov-2 è nettamente meno diffuso. È coerente con il fatto che non siano mai state segnalate, nel mondo, scuole che hanno dato vita a un focolaio, come osserviamo invece per l’influenza”.

La percentuale di partecipanti risultati positivi al test è rimasta stabile (lo 0,8 per cento) nel corso delle tre settimane di esami non mirati, e il tasso d’infezione differisce di poco nei due gruppi di popolazione generale. “Questi risultati sono compatibili con una propagazione lenta del Sars-cov-2 nella popolazione islandese. Il fatto che l’incidenza dell’infezione non sia aumentata nel corso del tempo potrebbe essere il risultato degli sforzi di contenimento compiuti dalle autorità sanitarie islandesi e della loro efficace risposta all’epidemia all’estero”, ritengono gli autori dello studio.

I ricercatori segnalano inoltre che sono state trovate delle differenze nel corso del sequenziamento di oltre seicento campioni di coronavirus, dai quali emerge che l’infezione è arrivata in Islanda da diverse zone, in particolare dall’Italia e dall’Austria.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano francese Le Monde.

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