26 aprile 2021 14:28

Nel luglio 2020, con il varo del piano Next generation Eu, l’Europa ha voltato pagina rispetto alle politiche d’austerità seguite alla crisi del 2008, e ha messo sul piatto 750 miliardi di euro, che vanno aggiunti ai fondi nazionali “liberati” dalle clausole del patto di stabilità e crescita. L’Italia, sia per entità delle perdite sia per debolezza strutturale, è tra le principali beneficiare di questi soldi, con 191,5 miliardi di euro di qui al 2026 (122,6 in prestiti e 68,9 in trasferimenti a fondo perduto). Come saranno spesi, e in che modo riusciranno a sanare quelle debolezze strutturali che ci hanno esposto più di altri alla crisi pandemica, sono le vere domande.

L’impalcatura l’ha messa la stessa Commissione europea, dando i titoli e le condizioni: in particolare, che si tratti di investimenti e non di spese correnti; che gli investimenti vadano per la maggior parte all’ambiente e al digitale; e che siano accompagnati da riforme di sistema. Ma il contenuto – al quale non a caso guardano con apprensione da Bruxelles e da tutte le capitali europee – è tutto nostro.

Il rischio era, ed è, quello di riempire le nuove botti di vino vecchio e scadente, un po’ per le pressioni e le richieste di tutto l’arco politico chiamato a sostenere il governo, un po’ per le parallele pressioni dei loro grandi e piccoli elettori, un po’ per forza di inerzia. Rischio sventato? È ancora presto per dirlo, ma una lettura delle 337 pagine consegnate dal governo al parlamento (prima dell’invio alla Commissione europea) può aiutare a rispondere; e a cercare di capire cosa potrà materialmente restare, nell’Italia del 2026, dell’inondazione di parole e numeri raggruppate nelle sei missioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

La premessa
Firmata da Mario Draghi, ricalca lo stile delle considerazioni finali che chiudono le relazioni annuali della Banca d’Italia (della quale Draghi è stato governatore dal 2006 al 2011). Mette in fila i problemi strutturali dell’economia italiana, che sono stati aggravati ma certo non causati dalla pandemia. Alcuni numeri su tutti: “Tra il 1999 e il 2019, il pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e 43,6 per cento”. Altri divari, rilevanti, sono poi elencati così: il tasso di povertà assoluta, arrivato a sfiorare il 10 per cento della popolazione; il gran numero di giovani che non lavorano e non studiano; l’occupazione femminile al 53,8 per cento; la bassa produttività. Ma anche la fragilità del territorio, più esposto di altri alle conseguenze del cambiamento climatico, e il calo degli investimenti pubblici e privati.

Tutti problemi che rischiano di condannare il paese a un futuro di crescita bassa, che però non è un destino ineluttabile, scrive Draghi ricordando i fasti del miracolo economico degli anni cinquanta. Segue l’intenzione di richiedere il massimo delle risorse del fondo messo a disposizione dall’Unione europea, sia i trasferimenti sia i prestiti; la garanzia del fatto che il 40 per cento delle risorse andranno al Mezzogiorno; e l’elenco delle quattro riforme di “contesto” che dovranno accompagnare il piano: pubblica amministrazione, giustizia – “in media sono necessari oltre 500 giorni per concludere un procedimento civile in primo grado” –, semplificazione legislativa e concorrenza. Alle quali si aggiunge, fuori dal Pnrr, la riforma fiscale da cominciare a discutere a luglio.

Il piano
È articolato in sei missioni e quattordici componenti. Le missioni sono in linea con quelle richieste dalle indicazioni di Bruxelles: digitalizzazione, transizione verde, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute. Per ognuna di queste, alle sostanziose risorse del Pnrr si aggiungono altri finanziamenti: quelli del React Eu e un fondo complementare messo a disposizione dal bilancio italiano. Il tutto porta l’ammontare finale degli investimenti a 235,14 miliardi di euro, dal 2021 al 2026. Priorità trasversali sono il superamento dei divari di genere, tra generazioni e tra territori.

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Come si può vedere dalla tabella riassuntiva delle missioni e dei relativi stanziamenti, le prime due sono quelle che ricevono più risorse. Non è una scelta, dato che il Next generation Eu obbligava i beneficiari a destinare almeno il 20 per cento delle risorse alla transizione digitale e il 37 per cento a quella ecologica. Il che può aver portato i pianificatori a forzare un po’ la mano, mettendo sotto l’etichetta del digitale anche programmi di tutt’altra natura. Infatti la prima missione ha un titolo lungo e vago, ossia Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura. E ingloba oltre alla digitalizzazione della pubblica amministrazione (9,75 miliardi) e del sistema produttivo (24,3 miliardi) anche 6,6 miliardi per Turismo e cultura: dentro questa voce ce n’è per tutti, dai borghi al cinema, alla sicurezza sismica delle chiese.

Va detto che questa impostazione c’era già nel Pnrr elaborato dal governo Conte: forse risponde alla necessità di mettere in primo piano i due settori più colpiti dalla pandemia, i cui bisogni tuttavia sono di natura “digitale” ma non solo. Nelle spese per digitalizzare la pubblica amministrazione ci sono circa due miliardi da investire sul capitale umano per rafforzare gli uffici dei tribunali.

Transizioni
Il capitolo principale della missione riguarda il sistema produttivo. Qui 6,3 miliardi vanno alla rete, per realizzare la banda internet ultraveloce di cui si parla da anni: il piano cita la necessità di non influenzare le scelte tecnologiche sulle quali le aziende private italiane e internazionali stanno investendo; e di raggiungere le aree dove gli operatori privati non sono arrivati, così come neanche la società pubblica creata ad hoc qualche anno fa. Ben 13,9 miliardi vanno in incentivi fiscali alle aziende per fare innovazione tecnologica nel digitale (titolo: Transizione 4.0). In aggiunta, un’idea per affrontare il problema dell’analfabetismo digitale in Italia: la creazione di un servizio civile digitale, con il reclutamento di migliaia di giovani che dovrebbero aiutare un milione di persone ad acquisire le competenze digitali di base.

Si va più nel concreto nella seconda missione, quella su Rivoluzione verde e transizione ecologica. Anche in questo caso si tratta di recuperare un ritardo italiano, quello nell’uso delle fonti rinnovabili, e di intervenire sul patrimonio edilizio pubblico e privato, nonché sulla fragilità estrema di un territorio già esposto per sua natura alle emergenze ambientali, ma anche devastato da incuria e abusivismo.

Dei circa 60 miliardi di questa missione, la fetta maggiore va alla transizione energetica per la decarbonizzazione di tutti i settori. In questo capitolo rientra la famosa questione del bonus 110 per cento per le ristrutturazioni edilizie: il Pnrr mette in primo piano, e finanzia, la riqualificazione degli edifici pubblici e delle case popolari, mentre gli incentivi per l’edilizia privata su cui si sono impuntati i grillini restano, ma i relativi finanziamenti sono presi dal fondo nazionale complementare.

Con il capitolo delle Infrastrutture per una mobilità sostenibile si arriva alle spese più “tradizionali”, sia pur rivisitate e orientate al verde. Ecco dunque le ferrovie fare la parte del leone, con 24,7 miliardi per l’alta velocità/alta capacità. Tra le opere previste, tre linee nel nord dell’Italia (Brescia-Verona-Vicenza-Padova; Liguria-Alpi; Verona-Brennero), e tre nel sud (Napoli-Bari, Palermo-Catania; Salerno-Reggio Calabria). Ma ci sono anche 1,58 miliardi per le cosiddette connessioni diagonali, quasi tre miliardi per il potenziamento dei nodi ferroviari metropolitani e un miliardo per le linee regionali.

Istruzione, inclusione, salute
La missione su Istruzione e ricerca parte dal basso, da quegli asili nido la cui offerta in Italia è assolutamente insufficiente rispetto alla domanda (nonostante le poche nascite, in media la copertura dei nidi per i bambini da zero a due anni è del 25,4 per cento, contro un obiettivo europeo del 33 per cento) per arrivare all’università. Questo è uno dei capitoli che più concorrono all’obiettivo trasversale della parità di genere, cominciando da nidi e scuole per l’infanzia per i quali sono stanziati 4,6 miliardi con la promessa di creare 228mila posti in più. Nell’insieme, per l’istruzione ci sono circa venti miliardi, mentre altri 11,4 riguardano il piano “dalla ricerca all’impresa”. In questa sezione, una proposta che ha guadagnato visibilità è quella dell’introduzione di lauree abilitanti, con l’eventuale sparizione degli esami di stato: eventuale, poiché molto dipenderà poi dai singoli settori e ordini professionali.

Nella missione Inclusione e coesione, le politiche per il lavoro prevedono un assegno di ricollocazione (Gol) per disoccupati e persone in cerca di lavoro, dai titolari di reddito di cittadinanza a quelli che ricevono indennità di disoccupazione e cassa integrazione straordinaria; interventi specifici per l’imprenditoria femminile e per la coesione territoriale. E qui si parla anche di infrastrutture sociali, come il rafforzamento dei servizi territoriali, dell’assistenza domiciliare per gli anziani non autosufficienti, fino all’housing sociale e allo smantellamento dei ghetti per i lavoratori migranti nell’agricoltura con la realizzazione di strutture abitative.

L’importanza della rete territoriale torna nella missione Salute. Sette miliardi sono previsti per le cure domiciliari, per gli ospedali e per le case di comunità. Si aggiungono otto miliardi per innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale.

Le riforme
Devono andare in parallelo agli investimenti. Senza le riforme anche una così robusta immissione di denaro potrebbe perdersi in mille rivoli o inabissarsi. Sono le riforme che sempre si citano e tutti i governi dicono di voler fare: pubblica amministrazione, giustizia, semplificazione, concorrenza.

Non si va oltre l’enunciazione dei princìpi anche se va detto che – per la prima volta – si ammette che se si introducono norme a tutela della concorrenza vanno previsti anche indennizzi per coloro che, nella transizione, saranno penalizzati (si vedano le proteste che hanno bloccato riforme come quelle delle concessioni delle spiagge e delle licenze dei taxi).

La riforma fiscale è solo vagamente accennata, ricordando che l’Europa chiede di riequilibrare i pesi sgravando il lavoro e riducendo il cuneo fiscale: troppo bollente la materia per infilarla qui. È citata invece l’altra questione scottante, quella delle pensioni, per la quale si andrà a un superamento della cosiddetta quota 100, con buona pace delle proteste leghiste.

Le donne e i giovani
Una novità rilevante, introdotta dopo le pressioni del Pd, è la cosiddetta condizionalità a favore di donne e giovani: si prevede che le imprese che riceveranno i finanziamenti del Pnrr, a qualsiasi titolo, saranno valutate anche in base alla quota di donne e giovani che impiegano. Nei bandi di gara saranno inserite clausole che indicano tra i requisiti necessari, e tra quelli che danno più punti, l’impiego di giovani e donne, anche con contratti di formazione o specializzazione.

La necessità di orientare il piano a favore dell’occupazione femminile, la più penalizzata dalla crisi dovuta alla pandemia, è stata invocata da molte realtà, a partire dalla rete Donne per la salvezza e dalle economiste di inGenere. Anche per ovviare al fatto che, essendo il piano concentrato su settori tradizionalmente a prevalente occupazione maschile, come l’economia digitale e l’energia verde, si rischia che finisca per accentuare anziché ridurre il divario di genere.

È una delle poche previsioni concrete per l’occupazione femminile, insieme ai 400 milioni di euro per l’imprenditoria delle donne. In generale, la loro presenza nel piano – la cui cabina di regia è quasi totalmente maschile – è andata oltre l’iniziale piccolo (per quanto importante) capitolo sui nidi, e si è fatto un tentativo di valutare, per ora in modo molto generico, l’impatto di ogni misura sul divario di genere.

Nelle previsioni finali si legge che nello scenario migliore, quello in cui le riforme di sistema funzioneranno e accompagneranno i nuovi investimenti, nel 2026 il pil sarà superiore di 3,6 punti percentuali rispetto a quello che si sarebbe avuto senza interventi. L’occupazione totale – sempre secondo queste previsioni – sarà di 3,2 punti in più, e quella femminile di 3,7 punti in più (5,5 nel Mezzogiorno). L’occupazione giovanile dovrebbe guadagnare 3,3 punti, e quella dei giovani del sud 4,9 punti.

Tornando alla premessa posta dallo stesso presidente del consiglio: un piano di questo tipo è in grado di affrontare non solo le emergenze e le sofferenze ereditate dal 2020, ma anche tutti i gap strutturali nati molto tempo prima?

Dal punto di vista della quantità – dei finanziamenti e delle iniziative messe sul piatto – la risposta è sì. Stavolta non possiamo incolpare forze esterne e arcigne che impediscono di fare quel che il paese vorrebbe e potrebbe fare. Dal punto di vista della qualità, la risposta è più incerta: dall’elenco si intravede qualcosa di vecchio (piani tirati fuori dai cassetti, opere promesse in svariate campagne elettorali e le grandi riforme da sempre attese), qualcosa di preoccupante (corporazioni che premono per avere un posto al sole, una pioggia di incentivi fiscali alle imprese con criteri non ancora dettagliati), e qualcosa di nuovo (l’attenzione per istruzione e ricerca, e l’avere messo finalmente la questione di genere come prioritaria e trasversale e non come sottocapitolo delle emergenze sociali, da tamponare con un po’ di asili nido).

Molto, moltissimo, è da definire, a partire da quella vaga nebulosa del digitale che per definizione è immateriale e anche poco comprensibile a tanti: e che non ha a che fare solo con il sistema delle aziende e della pubblica amministrazione, ma anche con la capacità di tutti di beneficiare della tecnologia. Sull’attuazione del piano si giocherà non solo e non tanto la tenuta del governo, ma anche quella di una società già frammentata e dolente ben prima del covid-19.

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