03 settembre 2021 12:13

Ultimamente mi trovo spesso a riflettere sugli eventi della mia vita e a cercare di capire come ho fatto a ritrovarmi qui.

Giugno 2011. Nella piazza di fronte ai grandi magazzini nella mia città natale, Novosibirsk, troneggia uno schermo con una mia fotografia. Appena diplomata, sorriso sgargiante. E sotto una didascalia: “Il distretto è orgoglioso di lei”. Anch’io lo ero allora. Avevo terminato il liceo con la medaglia d’oro e stavo per entrare alla facoltà di giornalismo dell’università di Mosca. Ero piena di speranza. Ancora qualche anno e sarei diventata corrispondente di una delle testate che divoravo al tempo della scuola.

Dicembre dello stesso anno. Ho 17 anni e partecipo alla mia prima protesta su viale Sacharov, a Mosca, per chiedere elezioni eque, mezzi d’informazione liberi e un cambio di governo. Il presidente è Dmitrij Medvedev. Il cambio rublo-dollaro è buono. I giornalisti seguono con attenzione le più grandi manifestazioni dai primi anni novanta. Tutti sono convinti che presto le cose cambieranno in meglio.

Marzo 2014. Sto per compiere vent’anni e sono al mio secondo giorno di lavoro per un’autorevole rivista indipendente quando le autorità attaccano Lenta.ru, una delle testate per cui sogno di lavorare, e su cui sto cercando di scrivere un articolo. È vero, tutto è cambiato. Ma in peggio.

Molti dicono che vedersi affibbiata l’etichetta di “agente straniero” è il “riconoscimento giornalistico più prestigioso” che si possa desiderare. In realtà non è affatto piacevole

Poco più di un anno dopo, cioè nell’estate del 2015, quando mi laureo con lode alla facoltà di giornalismo, di quei mezzi d’informazione non ne è rimasto nemmeno uno. Le autorità li hanno distrutti sotto i nostri occhi, uno dopo l’altro. Ma per qualche ragione penso ancora che il giornalismo sia la mia vocazione e la migliore professione del mondo. Così comincio a lavorare per Dožd, l’unico canale televisivo indipendente nel paese, e poi anche per una testata il cui nome oggi è vietato pronunciare.

L’ultima stretta
Poco più di un mese fa, il 15 luglio 2021, le autorità classificano come “organizzazione indesiderabile” anche Proekt, uno dei pochi siti di giornalismo d’inchiesta in Russia, dove ho lavorato nei due anni precedenti. In poche parole, impediscono a noi giornalisti di lavorare e di scrivere, minacciandoci di possibili ritorsioni penali. Molti altri miei colleghi vengono dichiarati “agenti stranieri”.

Ormai disoccupata, decido di partire per il sud della Russia per rimettermi in qualche modo in sesto, poi torno a Mosca, sempre disoccupata, ma con un nuovo status: anche io sono diventata “agente straniero”. Il mio cognome è il trentunesimo nella lista del ministero della giustizia.

Nei giorni a seguire mi sembra quasi di assistere al mio funerale: addolorati per la perdita, tutti ricordano quanto ero brava nel mio lavoro. Solo diverse settimane più tardi mi rendo conto che tutto questo sta succedendo proprio a me, e che l’allieva modello di cui la mia città un tempo andava “orgogliosa” adesso è ufficialmente nelle fila dei “nemici del popolo”. Molti dicono che vedersi affibbiata l’etichetta di “agente straniero” è il “riconoscimento giornalistico più prestigioso” che si possa desiderare. In realtà non è affatto piacevole. Non lo auguro a nessuno.

Ma cosa deve fare un giornalista o un giornale per essere bollato come “agente straniero” in Russia?

Formalmente basta pubblicare qualcosa sui social network o su un altro mezzo di comunicazione e ricevere una transazione in denaro dall’estero. In teoria chiunque può diventare un agente straniero, ma per ora – e credo sia chiaro il perché – nella lista ci sono solo giornalisti e attivisti. Nella legge non è specificato, ma c’è un preciso obiettivo: mettere a tacere e punire l’autore di un articolo o la testata che lo ha pubblicato.

Al momento ci sono altre diciassette persone nella lista dopo di me. Cambia da una settimana all’altra. I venerdì in Russia sono davvero neri. Le autorità aggiornano di proposito gli elenchi dei nemici nel fine settimana per suscitare meno scalpore.

Ma in pratica, cosa significa essere un agente straniero?

In primo luogo, tutti i nostri articoli, podcast, post sui social e perfino le storie o i commenti su Instagram, devono essere contrassegnati da un umiliante avviso di ventiquattro parole per mettere in chiaro che l’autore non è solo un giornalista e un essere umano, ma soprattutto un agente straniero. Chi non lo fa va incontro a multe e ad accuse penali. Ormai io vivo con questa consapevolezza, giorno dopo giorno. Ogni volta che pubblico la foto di un panorama su Instagram so di correre un rischio.

Inoltre si devono inviare cinque resoconti di quaranta pagine all’anno indicanti le fonti del proprio reddito e tutte le spese sostenute. Ogni volta che compro un caffè, penso al fatto che, in teoria, sul sito del ministero della giustizia chiunque può vedere cosa sto facendo. Due errori nel resoconto annuale possono portare a una condanna a due anni di carcere. Ci si sente in pericolo anche a fare la spesa. Come se non bastasse, ci sono un sacco di spese da affrontare per conservare la legalità della propria attività.

Insomma, è una situazione bruttissima. Che razza di agente straniero sono? Mi sembra, nel corso della mia breve vita, di aver appreso sulla Russia e sulla sua gente – grazie agli incarichi, al lavoro e ai continui viaggi per il paese – più di quanto non sappiano i deputati della duma che hanno votato per questa legge.

Non è chiaro per quanto tempo ancora riusciranno a resistere i media indipendenti rimasti nel paese

Il massimo dell’assurdità è che questo status è permanente. Finora nessuno è riuscito a far cancellare il proprio nome dal registro degli agenti stranieri, e le procedure per farlo non sono specificate nel testo della legge. Ovviamente, però, è meglio augurarsi la completa abolizione del provvedimento che sperare in alcune modifiche.

Marija Zacharova, la responsabile stampa del ministero degli esteri, e il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov insistono nel dire che essere etichettati come “agente straniero” non vuol dire non potere lavorare come giornalista e sostengono che l’etichetta non interferisce nella nostra vita. Ma diversi miei colleghi che cercavano un impiego si sono visti rifiutare l’assunzione non per mancanza di professionalità, ma perché assumerli non era sicuro. Inoltre, molte testate, anche quelle indipendenti, non sono disposte a contrassegnare i loro articoli con il disclaimer dettato dal ministero. In questo modo, però, attirano su di sé attenzioni indesiderate. È discriminazione, bella e buona. Io, per esempio, ho scritto su Facebook che stavo cercando un lavoro. Il post ha raccolto 800 like, cento condivisioni e un sacco di parole gentili, ma mi è fruttato solo cinque offerte.

A dirla tutta, nelle ultime settimane quelli che – come me – si sono ritrovati in questa condizione hanno pensato seriamente di lasciare la professione o di emigrare.

Grazie a questo status siamo diventati i protagonisti dei nostri articoli, persone che si sono trovate intrappolate negli ingranaggi della macchina dello stato. Spesso i nostri eroi sono completamente impotenti di fronte agli abusi di potere, ma noi siamo fortunati, perché per adesso abbiamo ancora voce: io e un’altra giornalista, Olja Čurakova, abbiamo cominciato a registrare un podcast chiamato “Privet, ty inoagent” (Ciao, sei un agente straniero), che parla della nostra vita in questa nuova realtà.

Questo ci consente di rimanere nella professione indipendentemente dalle decisioni prese dai responsabili e dai funzionari che si occupano di informazione. Inoltre, vedendo come si stanno evolvendo le cose, gli “agenti stranieri” sono destinati a diventare sempre più numerosi.

Per ora non so rispondere alle domande relative al mio futuro. Fare la giornalista sta diventando davvero pericoloso. Anche un semplice articolo per una pubblicazione in inglese può essere equiparato a una collaborazione con i servizi segreti di un paese estero. Ma cercare di indovinare la logica di chi ti vuole incastrare e ridursi all’autocensura è un compito ingrato.

La cosa peggiore è che la società non si preoccupa di quello che sta succedendo nel mondo del giornalismo. La maggior parte delle persone non cerca informazione di qualità. Non è chiaro per quanto tempo ancora riusciranno a resistere i media indipendenti rimasti nel paese. Ma forse il problema è che, nonostante questi ultimi dieci anni, sono ancora convinta che il giornalismo sia la mia vocazione. E il miglior lavoro del mondo.

(Traduzione di Alessandra Bertuccelli)

Questo articolo è stato pubblicato dal Moscow Times.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it