26 dicembre 2019 11:05

Questo articolo è stato pubblicato il 3 agosto 2018 sul numero 1267 di Internazionale. Era stato pubblicato sulla rivista Guernica con il titolo Where lost luggage goes to be found.

Mi fermo nel parcheggio dell’Unclaimed baggage center, il centro per i bagagli non reclamati, in un pomeriggio grigio che fa da cornice perfetta a questo tempio delle cose perse. Le cose perse arrivano a Scottsboro, in Alabama. Be’, non proprio tutte le cose perse: solo gli oggetti smarriti nei bagagli smarriti.

Ma io non mi sono persa. Ho guidato attraversando le montagne, passando davanti a giganteschi rivenditori di fuochi d’artificio (ognuno diceva di essere “il migliore” e “il più grande”) e a cani morti che marcivano sul bordo della strada, fino ad arrivare a Scottsboro per vedere una delle principali attrazioni turistiche dell’Alabama. Se non fosse per l’insegna blu e arancione a forma di valigia, l’Unclaimed baggage center sembrerebbe un normale ufficio. Le pareti esterne sono circondate da siepi ben curate. Le due bandiere degli Stati Uniti che incorniciano l’entrata e le sedie a dondolo, insieme alle piante pensili, fanno pensare al portico di una casa più che a un’attività commerciale.

Quando sono andata a Montréal diversi anni fa, la mia valigia non è arrivata. È strano uscire da un aeroporto senza valigia. Senza i nostri bagagli, veniamo gettati nel mondo impreparati. Nel passare sotto le indicazioni in francese, mi sono sentita più che a mani vuote: mi sono sentita pericolosamente leggera, come se non avessi niente a che fare con il posto in cui mi trovavo. Il giorno dopo sono uscita per comprare dei vestiti e ho preso un maglione nero e dei pantaloni neri: forse mi sentivo in lutto per la mia valigia, che mi è stata consegnata in albergo il giorno dopo.

Diamo per scontato di poter tenere con noi il bagaglio quando viaggiamo. Può esserci tolto per degli intervalli di tempo, ma di regola non viaggia su un altro mezzo come succedeva in passato. Il trasporto dei bagagli funzionava più come la spedizione dei pacchi: valigie e bauli venivano sbattuti di qua e di là e per questo, a volte, il loro contenuto veniva danneggiato.

Nel baule di una scrittrice
“Non ci potete credere, il mio baule è già arrivato; e, cosa che completa la meravigliosa felicità, non si è danneggiato niente”, scriveva Jane Austen in una lettera del 1808. La spiritosa iperbole “meravigliosa felicità” è tipica di Austen, ma è anche un’allusione a un’ansia molto reale. Era meraviglioso che i suoi averi non fossero stati danneggiati, e lei ne era sollevata. Nel 1814 le andò peggio: “Il mio baule non è arrivato ieri sera, penso che arriverà stamattina: se no devo prendere in prestito delle calze e comprare scarpe e guanti per il mio viaggio. Sono stata sciocca a non prepararmi meglio a questa possibilità. Ma spero molto che scriverne in questo modo farà arrivare il baule a breve”. Austen scherza immaginando di poter usare la scrittura come un incantesimo per materializzare il suo bagaglio, rimediando così al problema della sua autoproclamata stupidità.

Austen ritrovò il suo bagaglio. Ma quando un bagaglio non viene ritirato il suo contenuto finisce all’Unclaimed baggage center e nelle mani dei tanti clienti che si riversano qui. Il centro, che ha un’estensione di quasi quattromila metri quadrati, ha aperto nel 1970 e ogni anno richiama più di 800mila visitatori da oltre quaranta paesi. Il suo status di attrazione è sottolineato dalla presenza, all’entrata, di brochure turistiche che promuovono cantine locali, zoo, centri di paracadutismo, campi da golf, grotte, skate park e le chiese più antiche ed emblematiche dell’Alabama del nord. Si possono comprare magliette ricordo. I reparti del negozio principale comprendono gioielleria, articoli sportivi, abiti eleganti, libri, elettronica (con un limite massimo di acquisto di tre computer al giorno per persona), abbigliamento maschile e femminile. E, ovviamente, valigie. C’è anche uno Starbucks. Un edificio a parte ospita il negozio Etc, con articoli per bambini e per la casa.

Nel 2012, più di 1,8 milioni di valigie sono state perse, rubate o danneggiate dalle principali linee aeree statunitensi

Quando arrivo, il parcheggio è quasi pieno, e la presenza di diversi camper conferma il fatto che il negozio è una meta turistica. Un cartello al lato dello stabile indica che nel retro ci sono altri parcheggi per camper e roulotte. Non lontano ci sono un negozio di pneumatici e un distributore di benzina. Dall’altra parte della strada c’è il T&W Unclaimed baggage, un negozio simile ma dall’aspetto piuttosto malandato in confronto (un impiegato dell’Unclaimed baggage center lo definisce “un’imitazione”). Dietro al negozio, il cimitero di Cedar hill si estende per otto ettari. Sul sito sono in vendita tombe a 400 dollari, o 1.400 dollari per un lotto di quattro. Ci sono tombe che risalgono alla guerra di secessione e tombe di alcune delle prime famiglie che si sono insediate nella città. E tanti cornioli.

Il negozio riceve bagagli da compagnie aeree, linee di autobus, la compagnia dei treni statunitense Amtrak, navi da crociera, compagnie di autonoleggio e resort. La maggior parte degli oggetti viene dagli aerei. Secondo il sito dell’Unclaimed baggage center, negli Stati Uniti il 99,5 per cento delle valigie viene recuperato al ritiro bagagli. Ma lo 0,5 per cento rimane lì. Nel 2012, più di 1,8 milioni di valigie sono state perse, rubate o danneggiate dalle principali linee aeree statunitensi sui voli nazionali. Questo significa che, ogni mille passeggeri, più di tre valigie sono state perse o danneggiate. Le compagnie regionali o a basso costo tendono ad avere i numeri peggiori. Il sito spiega che le linee aeree conducono “un’accurata ricerca di tre mesi per rintracciare i proprietari delle valigie”, pagando delle penali sui bagagli che non possono essere riconsegnati. Alla fine di questo processo, vendono “la proprietà dei bagagli non reclamati”, che a quel punto non appartengono più a nessuno, al centro.

Il sito del centro descrive queste valigie come “orfane”. La parola suggerisce che il proprietario del bagaglio sia il suo genitore e che sia morto. I termini “smarrito” e “non reclamato” sono usati indistintamente, ma “smarrito” implica che un bagaglio sia finito nel posto sbagliato, come succede quando non troviamo le chiavi di casa, mentre “non reclamato” implica che sia stato abbandonato. L’abbandono è collegato alla sua condizione di oggetto smarrito, ma “smarrito” non definisce completamente il bagaglio che nessuno ha reclamato.

Le valigie orfane vengono comprate a scatola chiusa, caricate sull’enorme rimorchio di un camion e trasportate nella struttura di smistamento del negozio, dove il personale del negozio le apre, le classifica e ne prezza il contenuto. I vestiti sono lavati in un impianto interno, il più grande dell’Alabama del nord. I dispositivi elettronici sono testati e ripuliti dai dati personali. I gioielli di valore sono lucidati e valutati. Le valigie vengono aperte davanti ai clienti alle 14.30, dal lunedì al sabato, così si può sbirciare dentro la valigia di uno sconosciuto prima che sia svuotata. Lo staff seleziona “gli articoli migliori” destinandoli alla vendita, e di quello che rimane circa la metà è devoluta a enti di beneficienza con il programma Reclaimed for good. Tutto il resto, quello che non può essere venduto o donato, lo buttano via.

Sul sito, questo processo è rappresentato dall’immagine di una valigia aperta. Gli oggetti al suo interno sono suddivisi in tre categorie: da vendere, da devolvere, da buttare. La categoria delle cose da buttare include un ciuccio, un pennarello, delle graffette, un elastico di gomma, un tubetto di dentifricio e uno spazzolino da denti, un piccolo taccuino marrone, un pezzo di carta piegato che potrebbe essere uno scontrino. Circa un quarto degli oggetti smarriti non ha alcun valore: mi sembra tristissimo. Ma non si può fare molto con lo spazzolino usato di un’altra persona. O con un suo vecchio scontrino.

Tesori nascosti
Però queste valigie contengono anche cose particolari e straordinarie. L’entrata del centro è un “museo” di oggetti ritrovati, presidiato da un ritratto dei fondatori Doyle e Sue Owens. Sue è seduta su una poltrona gialla e Doyle, in piedi dietro di lei, le appoggia la mano sulla spalla. A destra c’è una vetrina con gli “oggetti religiosi” e a sinistra il pupazzo di Gogol, il goblin del film Labyrinth. Dove tutto è possibile del 1986, arrivato al centro nel 1997 in “pessime condizioni” e poi restaurato. Queste esposizioni continuano all’interno del negozio, dove i tesori speciali sono sistemati sulle pareti in alto: corna di alci, macchine da scrivere Underwood, strumenti musicali come una domra russa e una ribeca afgana.

Gli oggetti in mostra sono accompagnati da cartellini che li identificano e li descrivono. Un “modellino fatto a mano della fregata Hms Surprise” include una breve storia delle guerre napoleoniche e una foto di Russell Crowe nel film Master and commander: sfida ai confini del mare. Un “antico ventaglio” ritrovato nel 2010 ha la seguente nota: “Questo bellissimo oggetto dipinto a mano dell’ottocento mostra classiche scene di giovani impegnati nei loro svaghi. Decorato in oro e con stecche d’avorio finemente intagliate, è un ventaglio d’epoca vittoriana che dev’essere appartenuto a una signora di alto rango sociale”. Questi oggetti non sono in vendita.

Mi fermo vicino alle file di carrelli grigi e guardo la pianta del negozio. Una schiera di jeans piegati a metà e appesi alle grucce si stende davanti a me. Attraverso il reparto delle uniformi, supero un cesto di scaldamuscoli con inserti di pizzo (in mezzo qualcuno ha abbandonato una bibbia con la copertina nera in finta pelle, di quelle che si trovano nelle stanze d’albergo) ed entro nella zona dei vestiti eleganti, piena di abiti lunghi dai colori vivaci che mi ricordano i balli scolastici di fine anno degli anni novanta.

Vestiti da sposa di produzione industriale sono disposti su sei file lungo la parete, e sono un trionfo di lustrini, pizzo e taffetà. Mi chiedo se siano mai stati indossati. Vago tra scaffali di camicie, vestaglie e pigiami. Alcuni degli articoli più costosi del negozio – un vestito di pizzo color avorio di Chloé, taglia 46 (in vendita a 849,99 dollari, nuovo costa 3.195 dollari) e il baule Sherazade di Barrel Shack (in vendita a 189,99 dollari, nuovo costa 1.450 dollari) – sono messi in evidenza e sistemati in cima agli scaffali, isolati dal mare di oggetti d’uso quotidiano, come a ricordarci che qui potremmo scovare dei tesori. Una donna guarda il vestito di Chloé: “Come si fa a non reclamare un vestito di Chloé?”, chiede all’amica, scuotendo la testa. “Incredibile”.

Le valigie che contengono questi oggetti gli danno anche un senso, ma da soli perdono di significato

Nella maggior parte dei casi, sono oggetti ordinari. Bigiotteria. Camicette, vestiti, magliette. File di macchine fotografiche compatte e di libri in edizione economica. Le cose della vita di tutti i giorni. Ma la tensione tra ordinario e straordinario – non lontano dalla caffetteria c’è una cornice di legno scura laboriosamente incisa accompagnata dalla targhetta “Foresta nera svizzera, $ 1.350,00” – è quello che dà al centro la sua personalità. Nella sezione della gioielleria le vetrinette sono piene di bracciali, orologi, collane di perle, spille con cammeo e ciondoli, croci d’oro tempestate di diamanti e catene d’oro e d’argento di ogni lunghezza. Do un’occhiata alle etichette, che sono stranamente precise: $ 103,99, $ 66,99, $ 172,99, $ 260,99, $ 500,99.

Un uomo di fianco a me chiede alla commessa di poter vedere un anello con cammeo, lei lo estrae dalla teca e glielo porge.

“È davvero bello”, gli dice. “Ne avevamo un altro simile che era un vero affare. L’hanno comprato subito”.

Lui lo guarda con attenzione e lo gira. “Sì, è proprio bello”.

“È una meraviglia. E poi c’è quest’altro con la perla, che è molto particolare”.

La commessa gli dà l’altro anello, che il signore fa scivolare sul dito fin dove arriva, cercando d’immaginare come potrebbe stare sulla mano di una donna.

“Mmh…”, dice. “Proprio una bella scoperta”.

Cammino fino al reparto dei foulard. Una commessa nota il mio anello – un teschio – e sorride.

“Le piacciono i teschi?”, mi chiede.

“Sì”, rispondo.

“Be’, ho una cosa da farle vedere che è appena arrivata”. Si allontana per un attimo e torna portando un foulard accuratamente piegato, con dei teschi bianchi e neri.

“Alexander McQueen”, dice.

“Ooh. Che bello”.

“È appena arrivato”.

“Ci sono delle cose bellissime anche qui”, dico, indicando i foulard nell’espositore.

“Sì”, ribatte. “Hermès”.

Uno dei foulard è blu scuro, e chiedo di vederlo. La commessa lo prende e lo mette sul bancone. Lo apro. Il motivo raffigura un angelo.

Penso alla valigia che conteneva questo foulard. Forse era chiusa. Oppure no. Probabilmente non è importante. I lucchetti delle valigie non mi hanno mai dato l’impressione di essere delle vere misure di sicurezza. Sarà per via delle dimensioni: sono delle cosine di metallo con un buco o una combinazione fatta di piccoli tasti. Ricordano i lucchetti dei diari segreti per bambini: sono più simbolici che altro, una dichiarazione che qualcosa non dev’essere aperta più che un vero ostacolo. E adesso il foulard è qui, orfano. Decido di comprarlo, e la commessa sorride con approvazione.

Il foulard è un capriccio, ma non me ne pento. Ora il suo valore è determinato dal mercato, non dal sentimento o dai ricordi. Quando è stato tirato fuori dalla valigia, il legame con il suo proprietario si è perso. Le valigie che contengono questi oggetti gli danno anche un senso, ma da soli perdono di significato o ne acquistano un altro.

Prima di ripartire, dal retro raggiungo il cimitero e me ne resto in piedi, sotto al cancello di ferro, a guardare le persone che vanno e vengono dalle loro macchine con le buste in mano. La grande domanda dell’Unclaimed baggage center è perché le valigie non vengano reclamate. Tutte le persone a cui ho detto che sarei venuta qui mi hanno chiesto: perché qualcuno non dovrebbe reclamare una valigia smarrita? Forse a questa domanda non c’è risposta. O la risposta è che non si può rispondere. Gli oggetti in vendita nei negozi di seconda mano o di antiquariato sono stati portati lì: venduti o regalati, o semplicemente trovati. Può darsi che i proprietari originali siano morti, o che si siano trasferiti e volessero alleggerirsi. Può darsi che non siano gli oggetti a essere smarriti, ma i loro proprietari. Queste persone aleggiano sul negozio come fantasmi, e nessuno sa cosa dire di loro.

Il mio foulard è piegato in una busta di carta bianca, chiusa da un punto metallico applicato sullo scontrino. Lo tiro fuori. È morbido. Non trasmette la sensazione di essere nuovo, ma di essere appartenuto a qualcuno. Lo sollevo e lo guardo. L’espressione dell’angelo è imperscrutabile, quasi innocente, tiene le ali verdi a riposo dietro la schiena e ha la testa incoronata di fiori. Indossa un mantello aperto che cade sui fianchi, ma non ci sono dei veri e propri fianchi perché non ha un corpo. Dentro al mantello, invece del busto c’è il vuoto. Il nulla. Solo un disegno geometrico che ricorda dei vetri rotti. Si agita al vento, e penso che sia l’angelo dei bagagli non reclamati, che porta tutto nel suo nulla.

Mi lego il foulard intorno alla testa, così da avere gli occhi liberi dai capelli mentre guido per tornare a casa.

(Traduzione di Cristina Biasini)

Questo articolo è stato pubblicato il 3 agosto 2018 sul numero 1267 di Internazionale. Era stato pubblicato sulla rivista Guernica con il titolo Where lost luggage goes to be found.

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