14 dicembre 2020 11:30

Per capire davvero l’Umbria bisogna partire dalla geografia. Costituita per il 70 per cento da colline e per il 30 per cento da rilievi montuosi, la regione non ha un solo angolo di pianura e conta solo due capoluoghi (Perugia e Terni), nessuna autostrada, una rete ferroviaria minimale, un aeroporto con tre destinazioni, poche industrie. Non c’è nemmeno l’Ikea. È un pezzo d’Italia di cui mai nessuno si ricorda, di cui raramente si sente parlare a un tg nazionale. Tanto che alle ultime elezioni amministrative i leghisti si sono confusi e hanno riempito le strade di Urbino, nelle Marche, con manifesti elettorali per l’Umbria.

Della regione si è ricordata però la massa di turisti arrivati la scorsa estate. “Si è favoleggiato che sia stata risparmiata durante la prima ondata di contagi grazie al suo discreto sistema sanitario, insieme alla bassa densità di abitanti. Non è vero. L’Umbria è stata risparmiata solo perché c’è stato il lockdown nazionale, per una conformazione che la rende più isolata, per la sua ridotta viabilità. In questa seconda ondata non è andata allo stesso modo. Stavolta il sistema sanitario non ha retto”, dice Fabrizio Stracci, epidemiologo, docente di sanità pubblica all’università di Perugia. “Fino a 15 anni fa eravamo al passo con l’Emilia-Romagna e la Toscana, regioni con le quali dialogavamo, adesso a causa dei tagli alla sanità pubblica, alle scarse assunzioni e alla cattiva organizzazione si è inceppato qualcosa, e il sistema è in grave difficoltà”.

Fonte: regione Umbria

Novembre è stato un mese duro per la sanità umbra, che ha subìto un vero e proprio tsunami. Era prevedibile, ma le strutture ospedaliere non si sono dimostrate preparate nonostante il tempo avuto finora per farlo. Ci si era illusi che i numeri contenuti fossero dovuti anche all’inquinamento più contenuto, al livello relativamente più basso di polveri sottili rispetto ad altre zone d’Italia. Invece il virus non ha risparmiato la regione, e complice l’età media molto elevata della popolazione, il tasso dei ricoveri ha toccato picchi molto alti durante il mese di novembre. Nelle settimane passate, l’Umbria ha conquistato il primato in Italia per tassi di saturazione delle terapie intensive (oggi è un po’ sceso, ma è sempre attorno al 60 per cento).

Com’è potuto succedere?
“Una sera ero di turno, alle otto e mezza, in maniera del tutto inaspettata sono arrivati tre malati covid. Sono arrivati senza nessuna pianificazione, non sapevamo dove metterli”, dice Alessandro, infermiere a Foligno, che preferisce non rivelare il suo cognome. “Come fai a chiamarla emergenza se si sapeva da mesi che sarebbe arrivata la seconda ondata?”, dice Carlo (nome di fantasia), infermiere dell’ospedale di Branca (l’ospedale di Gubbio e Gualdo Tadino), una delle strutture umbre che dovevano restare fuori dalla rete dei centri per il covid-19 e poi in fretta e furia riorganizzata per ospitarne i malati.

“A Branca da giorni sono ricoverati quattordici positivi in un’area vicina a medicina generale, dove ci sono altri 16 pazienti non-covid”, hanno denunciato i sindacati Fp-Cgil, Fp-Cisl e Uil-Fpl dell’Umbria. “Ancora più grave, ci sono spazi in comune per il personale (medicheria) che assiste le due tipologie di pazienti. Anche le dotazioni di dpi (dispositivi di protezione, ndr) che, quando ci sono, sono comunque della tipologia propria di un ospedale covid free. Così il personale è dotato di dispositivi di livello di sicurezza inferiore rispetto ai colleghi di altre aziende, pur facendo le stesse cose”.

Ciò che è accaduto nell’ospedale di Gubbio è esemplificativo: la mancata programmazione ha mandato all’aria un equilibrio delicatissimo, quello tra i reparti che si occupano di malati di covid-19 e gli altri. Problemi ulteriori sono stati registrati anche per la sanificazione delle ambulanze.

Il vero problema
Il declino della sanità umbra è cominciato certamente dieci, quindici anni fa. Dal 2019, poi, tutte e quattro aziende della sanità sono state commissariate per lo scandalo “concorsopoli”. Dopo aver parlato con tanti infermieri, anestesisti e rianimatori, molti dei quali preferiscono non comparire con nome e cognome per la paura di ricevere richiami dall’azienda, emerge con chiarezza perché si è inceppata la sanità pubblica: non sono le strutture che mancano, non sono gli strumenti tecnologici (a volte perfino in eccesso, come nel caso della medicina robotica), non sono nemmeno i dispositivi di protezione (non come poteva esserlo nella prima ondata), il vero problema è la mancanza di personale.

L’ospedale da campo per i malati di covid-19, Perugia, 11 dicembre 2020. (Alessandra Baldoni per Internazionale)

Mancano infermieri, dottori, tecnici. Mancano lavoratori con contratti stabili. Con quelli di dodici mesi gli infermieri non hanno nemmeno il tempo di formarsi. In questi giorni sono usciti i resoconti della corte dei conti sulle assunzioni fatte per potenziare le risorse umane. A fine ottobre in Italia sono stati assunti 7.650 medici, 16.500 infermieri e 12.115 altri operatori sanitari. In Umbria sono state fatte solo 19 assunzioni di personale sanitario a tempo indeterminato (contro le quasi tremila della Toscana): numeri molto bassi anche tenendo conto delle dovute differenze di densità di popolazione (in Umbria vivono 880mila persone, in Toscana 3,7 milioni).

Davanti all’ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia – l’istituto più importante del centro Italia – è stato messo in piedi un ospedale da campo nonostante ci siano ben quattro reparti chiusi e inutilizzati nello stesso ospedale. Di nuovo, per mancanza di personale medico.

Posti che non ci sono veramente
L’ospedale da campo di Perugia, un vero e proprio ospedale militare con 26 postazioni di terapia sub-intensiva, un vanto secondo la regione, rappresenta in realtà una criticità. Anche a Terni è stato allestito un piccolo ospedale gestito dalla Croce Rossa, dove sono ricoverati quattro pazienti con il covid-19. Non si sa per quanto, visto che nella notte fra il 27 e il 28 novembre sono stati chiamati i carabinieri più volte perché i pazienti non riuscivano a dormire dal freddo, racconta un infermiere di Terni che preferisce rimanere anonimo.

I 167 posti in terapia intensiva di cui parla la regione nella pratica poi non ci sono. “Sono posti potenziali. Ma i numeri sono diversi”, spiega un anestesista di Perugia. “L’ospedale da campo è una finta, non ci sono all’interno vere terapie intensive, ma solo semi-intensive, di fatto lì ci vanno i pazienti non gravi. Il vero ospedale da campo con trenta terapie intensive che doveva essere fatto grazie a un bando è stato bloccato per ragioni burocratiche. Io posso solo dire, con buona certezza, che se a fine gennaio ci sarà una terza ondata, qui sarà difficile trovare personale sanitario che ce la farà a reggere un’altra emergenza”.

“La pandemia ha messo a nudo problemi strutturali che c’erano già prima”, dice Tommaso Ciacca, primario anestesista di Orvieto. “Quello che posso dire è che abbiamo fatto una sola riunione con i direttori dell’Usl, a metà di ottobre, quindi in piena seconda ondata, e poi più nulla. I medici e gli infermieri, che erano pieni di energia a marzo, ora sono frustrati, il clima è molto diverso”.

Critiche feroci sono arrivate dalle associazioni di volontariato come Cittadinanza attiva o Perugia solidale che in questi mesi hanno aiutato i cittadini monitorando la situazione. Nel mirino sono finiti i 650mila euro che la regione avrebbe dovuto spendere per ospitare la trasmissione di Rai1 L’anno che verrà, con Amadeus, all’Ast di Terni. Il progetto è stato archiviato, viste anche le nuove restrizioni governative per le festività. “Con quei soldi si sarebbero potuti comprare 32 ventilatori polmonari per potenziare le terapie”, dicono i volontari di Perugia solidale. Speriamo nell’anno che verrà: la terza ondata potrebbe essere davvero la peggiore se non viene gestita con il raziocinio necessario.

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