19 marzo 2020 14:58

Quando Thorsten Windus-Dörr si è preparato per andare al lavoro, un giorno di inizio marzo, non ha indossato la solita camicia bianca o azzurra ma un maglione di lana verde a quadri. Invece che alla scrivania nell’ufficio della sua agenzia di comunicazione, si è seduto al tavolo della cucina di casa, su una panca di legno con una coperta in lana di pecora addosso, davanti a un collage di foto della moglie. Quel giorno Windus-Dörr, imprenditore di 61 anni, ha lavorato da casa. La sua azienda ha avviato una simulazione di due giorni, chiedendo ai suoi tre dipendenti e ai cinque collaboratori esterni di provare il telelavoro. Windus-Dörr e il suo socio volevano capire se l’agenzia, che offre servizi di pubbliche relazioni e consulenze sulla comunicazione in momenti di crisi, è in grado di funzionare anche nell’emergenza, quando tutti i dipendenti lavorano dalle loro cucine e dai loro salotti.

È una domanda che oggi si fanno molti imprenditori in Germania e nel resto del mondo. All’inizio a ricorrere al telelavoro sono state le aziende con dipendenti contagiati dal virus, ma poco dopo hanno cominciato a farlo anche le aziende che non hanno registrato casi, come misura preventiva e come test per prepararsi all’emergenza.

Secondo i dati dell’Ufficio federale di statistica, in tempi normali circa il 12 per cento degli occupati in Germania lavora da casa. Ma ora il sistema economico è costretto a fare un grande esperimento: cosa succede se nessuno va in ufficio? È la situazione che si è verificata il 9 marzo in uno dei più moderni grattacieli di Francoforte: la Banca centrale europea (Bce) voleva capire se è possibile gestire gli affari anche lavorando da remoto. Una portavoce della Bce ha dichiarato che il test ha avuto risultati soddisfacenti, se si escludono i pochi casi in cui i lavoratori hanno avuto difficoltà ad accedere alla rete. Il 10 marzo dall’esercitazione si è passati alla realtà: alla Bce è stato registrato il primo caso di nuovo coronavirus e a circa cento persone è stato chiesto di lavorare da casa. Stavolta per più di un giorno.

Per il momento nessuno dei dipendenti di Thorsten Windus-Dörr è stato contagiato. L’imprenditore racconta che non tutti i clienti dell’agenzia si sono mostrati comprensivi verso le misure adottate. Alcuni le hanno giudicate “ridicole” ed “esagerate”, e anche per questo il test è durato solo due giorni. Windus-Dörr era preoccupato che la tecnologia a disposizione non fosse abbastanza aggiornata, e che quindi la gestione da remoto della rete aziendale potesse non funzionare o che i colleghi potessero riscontrare problemi durante le conferenze via Skype. Ma alla fine tutto è andato liscio. L’unico problema ha riguardato il centralino telefonico aziendale, che ha impiegato troppo tempo a trasferire le chiamate sui cellulari dei dipendenti.

Affari d’oro
TeamViewer è un’azienda che offre programmi per lavorare in remoto. L’azienda ha sede a Göppingen, vicino a Stoccarda, e da qualche tempo si è specializzata in applicazioni per il lavoro da casa. Dopo l’inizio dell’epidemia TeamViewer è diventata molto popolare. Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo le sue azioni sono salite di più del 30 per cento. Anche il software è più richiesto che mai. Stando ai dati forniti dall’azienda, a Wuhan, la città cinese più colpita dal nuovo coronavirus, il numero degli accessi è triplicato e dalla fine di febbraio anche in Europa c’è stato un picco improvviso di utenti: prima nell’Italia settentrionale, poi nelle aree della Germania particolarmente colpite dal virus, come quella di Heinsberg. L’ufficio vendite riceve richieste da tutto il mondo. “I processi decisionali, che normalmente nelle aziende possono durare mesi, sono stati accorciati dal coronavirus anche a pochi giorni. Per le aziende la questione è d’importanza cruciale”, spiega una portavoce di TeamViewer.

Josephine Hofmann, dell’istituto d’ingegneria Fraunhofer, con sede a Stoccarda, svolge ricerche sul mondo del lavoro. La sua ipotesi è che per molte aziende che finora hanno evitato il lavoro da casa la situazione attuale sia molto distante dalla normale attività. L’istituto sta elaborando un protocollo che aiuti le aziende a strutturare il lavoro in remoto. Il virus, sostiene Hofmann, non sarà l’unico evento che porterà le persone a lavorare da casa.

Sul lungo termine il telelavoro potrebbe consentire di lavorare in maniera più agile e sostenibile

Hofmann e i suoi collaboratori cercano di rispondere alle domande che le aziende si stanno facendo. Per esempio: come offrire in poco tempo l’accesso alla rete a tutti i collaboratori? Gli impiegati possono usare i loro telefoni privati? Si possono compiere atti dal valore legale anche quando mancano le firme necessarie?

“Se va male, può succedere che le richieste dei clienti non siano soddisfatte, che non si rispettino i contratti o che alcuni affari saltino”, dice Hofmann. Ma se va bene, e questa è la sua speranza, l’epidemia in corso è un’opportunità per confrontarsi con modelli di lavoro flessibili e tecnologie moderne. Sul lungo termine potrebbe consentire alle aziende di lavorare in maniera più agile, economica e sostenibile. “Una volta superato questo stress test, ci chiederemo se è davvero necessario spedire cinque dipendenti all’altro capo del mondo per una riunione, quando basta una videoconferenza”.

Nel 2016 Karl Brenke, dell’Istituto tedesco per la ricerca economica (Diw), ha condotto uno studio sul telelavoro, e ha scoperto che quattro lavoratori su dieci dichiarano di poter svolgere le loro mansioni anche da casa. Questo naturalmente vale molto per i cosiddetti lavoratori della conoscenza – cioè quelli con un alto titolo di studio e di solito impiegati nei settori dell’editoria, delle tecnologie dell’informazione e dell’economia – e meno per chi non è laureato. Ed è un metodo che non può essere applicato a settori come l’edilizia, il commercio, la gastronomia e l’agricoltura. Nei settori come quello finanziario o della pubblica amministrazione due impiegati su tre dicono di poter lavorare anche da casa.

Esiste il problema dello “sconfinamento”, cioè la sovrapposizione tra vita professionale e vita privata

Raffaela Rein è tra le poche persone che lavora sempre da qualsiasi posto. Ha 33 anni ed è quella che nel gergo delle startup è definita un’imprenditrice seriale. La sua prima azienda era basata sul principio classico della presenza. Un modello che con il tempo le è piaciuto sempre meno, così per la seconda start up Rein ha organizzato tutto in maniera diversa. L’azienda, che vende polvere di zenzero su Amazon, funziona in remoto, senza collaboratori fissi e senza una sede fissa. Quando Rein e il suo compagno e socio sono a Berlino lavorano dal loro appartamento. Per il resto viaggiano molto. Durante lo scorso inverno sono stati per due mesi in India e a Bali. Non hanno smesso di lavorare, semplicemente l’hanno fatto con orari diversi e facendo la pausa pranzo in spiaggia. “Posso gestirmi da sola e questo mi piace molto”, dice Rein.

La situazione migliore
La sua esperienza descrive bene i due poli tra cui si muove il mondo del lavoro da casa. Da un lato, in questa modalità si lavora in media più che in ufficio. Dall’altro, chi lavora da casa è più soddisfatto, e sul lungo periodo la sensazione di poter disporre del nostro tempo ci fa dimenticare che la giornata di lavoro dura di più.

Hofmann, dell’istituto Frauenhofer, sottolinea però che non bisogna sottovalutare gli svantaggi del lavoro da casa. Svantaggi che emergono forse più sul lungo periodo che dopo una breve esercitazione. Un problema riguarda lo “sconfinamento”, cioè la sovrapposizione tra vita professionale e vita privata. “Le persone hanno bisogno di pause”, dice Hofmann. “Ma il fatto che computer, iPhone e vpn siano sempre a portata di mano rende le cose difficili”.

Secondo un sondaggio dell’Aok, la più importante tra le compagnie che vendono polizze per l’assistenza sanitaria in Germania, il 38 per cento delle persone che lavora da casa fa fatica a staccare dopo l’orario di lavoro. Questo dato scende al 25 per cento per gli impiegati d’ufficio. Anche stanchezza, disturbi del sonno e insicurezze sono più frequenti tra chi lavora da casa.

Molti lavori non pongono questi problemi. Finché le metropolitane, i treni e gli autobus non viaggeranno autonomamente, e docenti e medici non potranno permettersi di lavorare in videochiamata, tantissime persone dovranno continuare a presentarsi sul posto di lavoro. Altrimenti le società crollerebbero. Lo stesso vale per le industrie.

La Continental, azienda che produce pneumatici e componentistica per autoveicoli, sperimenta dal 2018 il telelavoro per gli operai. Nella realizzazione di componenti elettroniche gli operai specializzati individuano i circuiti stampati difettosi dal computer di casa, guardando le foto. “Ovviamente questo modello ha i suoi limiti”, dice la responsabile del personale Ariane Reinhart. “Le betoniere non possono certo essere azionate da casa”. Ma è un inizio. La Continental vuole capire come rendere accessibili anche agli operai delle fabbriche i vantaggi del lavoro moderno. Brevi periodi di sabbatico e lavoro ripartito sono già stati messi in pratica.

Per tutti gli altri il lavoro da casa è una questione di preferenza, sostiene Dieter Boch, direttore dell’istituto privato per la ricerca sul lavoro Iafob. Che ci sia o meno un virus in circolazione, di solito i dipendenti sono soddisfatti e produttivi quando sono liberi di scegliere come e dove lavorare. Tra le possibilità c’è anche quella del lavoro da casa, come c’è quella di potersi recare in ufficio in qualsiasi momento per discutere di un progetto con un collega davanti a una tazza di caffè.

Le persone che oggi sono a casa a causa della pandemia non hanno questa libertà di scelta. Per loro il lavoro da casa non è una scelta, ma un obbligo. Boch sostiene che chi non ama lavorare in solitudine sarà più frustrato da questa situazione, e alla lunga meno produttivo. Chi invece è più predisposto a questa modalità si abituerà presto. “E sarà un problema per tutte le aziende che, passata la pandemia, vorranno tornare al vecchio modello”.

(Traduzione di Claudia Tatasciore)

Questo articolo è uscito sul settimanale tedesco Die Zeit.

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