14 giugno 2019 15:23

E dunque è così che finisce la seconda repubblica. Finisce in una battuta di Adriano Sofri – “Non esistono magistrati onesti. Esistono solo magistrati non ancora intercettati” – contrappasso di quell’altra che Piercamillo Davigo pronunciò in piena Mani pulite, “Non esistono politici innocenti, ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove”. Battuta che ha perfettamente rappresentato quell’epoca fino a oggi. Finisce soprattutto con il disfacimento del proprio mito fondante: la separazione antropologica e aprioristica dei buoni dai cattivi. E con la drammatica crisi di credibilità dell’unico potere – dei tre che compongono lo stato – rimasto finora, e nonostante tutto, impregiudicato: il potere giudiziario, travolto da un’indagine per corruzione che ha coinvolto Luca Palamara, ex componente del consiglio superiore della magistratura (Csm) ed ex presidente dell’associazione nazionale magistrati (Anm).

Non è la prima volta che una crisi attraversa la magistratura. Non è la prima volta che una crisi si muta in questione giudiziaria. Ma questa volta è diverso. E la diversità risiede soprattutto nel contesto politico e istituzionale che oggi non appare più in grado di proteggere l’impalcatura dal terremoto che la sta scuotendo, visto che lo stato in quanto insieme di tre poteri – esecutivo, giudiziario e legislativo – è esso stesso oramai disarticolato, e da tempo. Quello che sta emergendo in queste settimane, insomma, sembra rappresentare la chiusura del cerchio aperto nel 1992 con le inchieste che spazzarono via quasi tutti i vecchi partiti e che travolsero il parlamento, unico potere che rappresenta direttamente i cittadini, d’improvviso relegato a soggetto residuale.

A partire da quei giorni, quando ogni cosa era annichilita dall’accavallarsi delle indagini sulla corruzione e dagli esiti drammatici della strategia stragista di cosa nostra, camera e senato cominciarono a perdere la centralità che avevano avuto nei decenni precedenti. Ciò accadde per molte ragioni che si intrecciarono e che infine produssero, senza neppure bisogno che fossero modificate le regole costituzionali, una sorta di presidenzializzazione della democrazia parlamentare. La leva più potente che consentì di forzare la mano fu l’introduzione, da parte di Silvio Berlusconi, di un richiamo alla legittimazione popolare diretta del governo, e dunque a un rapporto immediato tra governo e popolo che di fatto finì perfino per interferire con il rapporto di fiducia tra la maggioranza politica e il parlamento stesso, aprendo una lacerazione tra costituzione formale e costituzione materiale, mai più sanata. All’irrilevanza politica delle camere si aggiunse presto anche quella funzionale.

Vuoti di potere
Lo spazio lasciato vuoto venne occupato dagli altri due poteri. L’esecutivo assunse la funzione legislativa attraverso un ricorso sempre più massiccio ai decreti, per non dire dell’uso parossistico della questione di fiducia, che quasi esautorò del tutto il parlamento dal mettere mano alle materie più importanti. La storia dell’approvazione delle leggi finanziarie avrebbe molto da raccontare in questo senso. La magistratura, invece, cominciò a svolgere come mai prima di allora un ruolo da legislatore indiretto, per così dire, riempiendo sempre di più i vuoti di legislazione attraverso il suo potere di interpretazione. La via giudiziaria ai diritti civili ne è un ottimo esempio, dalle unioni civili alla disciplina del fine vita. Inoltre, e soprattutto, la magistratura come potere si vide delegare dalla società un’astratta funzione moralizzatrice che però non rientra nei compiti che l’ordinamento costituzionale gli assegna.

Fatto sta che la seconda repubblica ha vissuto uno scontro inevitabile e continuo tra questi due poteri, mentre il parlamento scomparve dalla scena. Ora la risacca dell’onda di quegli anni si sta portando via il resto.

Da un lato, ci sono segnali evidenti dell’indebolimento anche del ruolo dell’esecutivo. Il consiglio dei ministri da tempo quasi non si riunisce, e se lo fa rinvia le decisioni. In pratica non esiste, soppiantato da alcune leadership carismatiche. Dall’altro, le inchieste di queste settimane stanno facendo emergere un aspetto inquietante dell’attuale natura del potere giudiziario, anch’esso strumento di gestione e governo di interessi partigiani, come fu il sistema dei partiti negli anni del declino. Interessi, peraltro, sempre più di tipo personale. Anche sulle correnti è il momento di aggiungere qualcosa a quello che spesso si sostiene, e cioè che il correntismo è il contraltare della partitocrazia. Il punto è questo: le degenerazioni interne al potere giudiziario non stanno, come si sostiene in questi giorni, nell’esistenza delle correnti, non più almeno. Stanno invece nel fatto che sono diventate sostanzialmente inesistenti.

Nate all’inizio degli anni sessanta, per come oggi le conosciamo, le correnti svolsero a lungo una funzione di elaborazione culturale della funzione della magistratura. Poi, come altrove nella società, la spinta ideale si affievolì e divennero anche e soprattutto strumento di gestione degli assetti interni al potere giudiziario. Infine, a quanto si capisce dalle notizie di questi giorni, sono diventate strumenti dedicati unicamente o quasi alla gestione del potere, un potere di natura personale o al massimo da gestire in cordata. Se è così, il problema sta insomma nella trasformazione delle correnti in altro o, per meglio dire, nel loro definitivo superamento, in favore anche in questo caso di leadership carismatiche e personali.

Insomma, con molti anni di ritardo, la magistratura si trova adesso sul bordo dello stesso abisso nel quale era precipitata la politica con la fine dei partiti tradizionali e la nascita di quelli carismatici, da quello di Silvio Berlusconi ai casi più recenti: il Movimento 5stelle di Beppe Grillo, il Partito democratico di Matteo Renzi, la Lega di Matteo Salvini. È questo il punto decisivo di tutta questa storia: la mancanza di corpi intermedi pone sempre – in politica, tra i magistrati, ovunque – un evidente problema di rappresentanza democratica, liberando nello stesso tempo il desiderio di potere.

Il problema, detto altrimenti, è nella storia stessa della seconda repubblica. Anzi: il problema è la seconda repubblica. Oggi, con i tre poteri dello stato in crisi, esautorati di ogni funzione politica e perfino istituzionale, e soppiantati da una gestione sempre più personalistica, non è ben chiaro su quale impalcatura potrà poggiare la democrazia parlamentare. L’unica certezza è che la terza repubblica è ancora solo un deserto inquietante, popolato da leader carismatici.

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