18 febbraio 2020 10:26

Dice Giuseppe Conte che quella tra garantismo e giustizialismo è una contrapposizione che va bene per i giornali. Ai cittadini, sempre secondo il presidente del consiglio, interessa invece che il “sistema giustizia offra un servizio efficiente, adeguato, giusto”. Nel pieno dello scontro sulla prescrizione queste sue parole sono passate quasi inosservate. Ed è un peccato perché sono un monumento inconsapevolmente didascalico allo stato delle cose. Queste parole rappresentano infatti l’incapacità della classe dirigente di esprimere una posizione politica, anche su un tema decisivo come la giustizia.

Ecco allora che qualsiasi pensiero che non sia un generico appello al fare diventa manicheo. E non importa se poi anche quell’azione si fa evanescente e irrealizzabile. Anche la partita che si sta giocando da qualche settimana ha questa natura. La prescrizione non è la sua causa scatenante né la posta in gioco. Al centro di ogni cosa ci sono invece le stesse forze politiche paralizzate in uno scontro permanente e necessario per giustificare, in mancanza di ogni altra ragione ideale, la propria esistenza in vita. “Tutti piantano la propria asticella nella speranza non di aiutare il paese ma di alimentare la propria sopravvivenza”, ha scritto Claudio Tito su la Repubblica.

Così, una disperata necessità di visibilità suggerisce ai renziani di mettere in scena una guerra di logoramento contro il governo del quale fanno parte. Anche il Movimento 5 stelle si comporta ambiguamente come forza di lotta e di governo, terrorizzato come i renziani dal ritorno al voto, soprattutto se il referendum costituzionale confermasse il taglio dei parlamentari. Infine, un Partito democratico tutto paure e silenzi pare strutturalmente incapace di dettare l’agenda politica. E, soprattutto, ci si chiede se vi sia qualcuno in grado di dire oggi quale sia la posizione del partito sulla giustizia. La risposta è no, probabilmente neppure dentro il Pd. Sullo sfondo, le opposizioni sono assorbite soprattutto dalla corsa tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini, tanto la maggioranza pare perfettamente in grado di sabotarsi da sé.

Cosa prevede la riforma
Siamo alla prevalenza della tattica sulle idee. Nonostante le parole di Conte, il “non fare” sembra l’unica possibilità di sopravvivenza. Siamo insomma allo stallo alla messicana elevato a programma politico. Il fatto grave è che il cupio dissolvi che ha inghiottito i partiti non demolisce soltanto la loro credibilità ma si scarica sui cardini dell’intero sistema istituzionale.

A dimostrazione di ciò, c’è proprio la vicenda della prescrizione. Questo istituto giuridico impone di arrivare a una sentenza definitiva entro un tempo fissato dalla legge. Se questo tempo viene superato, il reato si estingue, a meno che non si tratti di reati punibili con l’ergastolo. Senza questa garanzia, una persona rischierebbe di rimanere indagata o imputata a vita.

È evidente quanto il tema sia delicato. Anche per questo, il giurista Giovanni Fiandaca sul Foglio ha avvertito che “la prescrizione, quale istituto di grande civiltà giuridica che coinvolge i fondamenti non solo del diritto penale ma più in generale dello stato di diritto, non dovrebbe essere trattata come una semplice questione politica fra le tante”. Non è stato ascoltato. Anzi, lo scontro politico ha assunto addirittura i caratteri dell’assurdo.

Logica vorrebbe che si eliminassero prima di tutto gli ostacoli che provocano l’eccessiva durata dei processi, ma si è invece intervenuti per aggredire il sistema delle garanzie. Questo è il senso della riforma voluta dal ministro per la giustizia Alfonso Bonafede, entrata in vigore a inizio 2020, ma ideata dal precedente governo, quello guidato dalla Lega e dal M5s. Il provvedimento si applicherà solo ai presunti reati compiuti a partire dal 1 gennaio 2020 e bloccherà la prescrizione dopo la sentenza di primo grado.

“Patirà un’offesa la civiltà giuridica di un paese che, non sapendo assicurare la ragionevole durata dei processi, è disposta a farne pagare il prezzo non solo agli imputati ma anche ai princìpi fondamentali che reggono e limitano il diritto e il dovere dello stato a stabilire cosa sia reato, giudicare e punirne gli autori, assolvere gli innocenti”, ha scritto il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky. Come lui, altre autorevoli voci si sono dette preoccupate. Si è allora cercato di correre ai ripari, trovandosi così nell’incresciosa necessità di controriformare una riforma appena entrata in vigore. Come detto, preoccupazioni di natura squisitamente tattica hanno però prevalso su tutto il resto.

Una storia lunga
In queste settimane si è assistito a un balletto di tecnicismi che ha coinvolto il parlamento, il governo, le segreterie dei partiti, causando ritardi, accelerazioni, ripensamenti, conferme e smentite. E anche i giornali alla fine hanno alzato le mani. Il giornalista Goffredo Buccini ha manifestato così il proprio sconcerto: “Chi li capisce è bravo. Cancellata qualsiasi strategia, il demone del tatticismo possiede i nostri politici”.

La soluzione alla quale per il momento si è giunti è il cosiddetto lodo Conte bis, dal nome di Federico Conte, deputato di Leu che lo ha proposto. Il lodo distingue tra assolti e condannati in primo grado: per i primi la prescrizione continua a valere; per i secondi si blocca. Se la condanna è confermata in appello, lo stop è definitivo; se si è assolti, i tempi della prescrizione vengono recuperati. Ma anche questa modifica ha creato tante perplessità tra i giuristi. È “un mostriciattolo, una copia deforme del parto originario”, lo ha liquidato l’ex magistrato Carlo Nordio. E si fa notare da più parti che potrebbero esserci problemi nel raccordo con il resto del sistema processuale. Le risposte forse si troveranno mentre si rimetterà mano anche all’annunciata riforma del processo penale. Ma sembra soprattutto un modo per prendere tempo senza doverlo ammettere apertamente.

Insomma, si naviga a vista. Oltre al vuoto politico che spinge i partiti a costruire la propria identità politica quasi esclusivamente contro un nemico e non sulle idee, emerge così anche una grave mancanza di cultura garantista. Tutto ciò si può spiegare almeno in parte con la storia di questi ultimi venticinque anni. Ma in questa prospettiva ogni cosa appare ancora più inquietante, soprattutto perché il garantismo – da Berlusconi al Pd, dalla seconda repubblica a oggi – è stato evocato più per interesse che per convinzione.

Invece “il garantismo penale è una teoria nobile che ci protegge dai soprusi di Stato, dagli abusi delle autorità, dalla violenza istituzionale della tortura”, ha ricordato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Ogni sua interpretazione nel segno della impunità dei potenti, come quella cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, è una manipolazione frutto di strumentalizzazioni da parte dei politici. È sicuramente ingiustificabile tenere una persona, chiunque sia, a vita sotto processo, ma non si evochi il garantismo senza essere sempre e universalmente garantisti”. E davvero nessuno oggi – né al governo né all’opposizione – sembra avere le carte in regola per poterlo fare.

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