04 ottobre 2021 14:36

La recente sentenza di appello del processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia ha investito politica e informazione come una fiammata, provocando un violento scontro polemico. Più che dall’analisi dei fatti la scena è stata occupata dalla speculazione politica. Si è arrivati perfino a discutere su chi avesse vinto o perso tra i giornalisti, diventati protagonisti quasi più dei protagonisti stessi. O, detto altrimenti, diventati inopportunamente loro stessi notizia.

In un paese che, nonostante i trent’anni trascorsi dall’inchiesta mani pulite, appare tuttora incapace di elaborare il proprio passato recente, sarebbe stato da ingenui attendersi qualcosa di diverso. E, anzi, lo scontro che si è aperto non appena i giudici di Palermo si sono pronunciati è apparso figlio proprio del bipolarismo rissoso che negli ultimi tre decenni ha prodotto una pesante distorsione del dibattito sulla giustizia e del racconto delle vicende giudiziarie.

Il fatto è che, però, toni strutturalmente sopra le righe rendono molto difficile l’esame dei fatti e, come ha osservato di recente Giancarlo Caselli sul Fatto Quotidiano, ne cancellano la complessità. Caselli, che negli anni novanta fu procuratore capo a Palermo, intendeva tra l’altro anche rispondere a chi ha contestato ai magistrati “di voler ricostruire gli accadimenti storici in ottica pregiudizialmente strumentale all’individuazione di responsabilità penali, così forzando le interpretazioni storiografiche”. Ma, al di là di questo genere di questioni, è sufficiente guardare ai titoli dei giornali e ai dibattiti televisivi di questi giorni per accorgersi dello stato delle cose.

È del tutto comprensibile, per esempio, che Marcello Dell’Utri, sull’onda del pronunciamento dei giudici sulla vicenda della trattativa, sostenga che “questa assoluzione mette in dubbio anche la precedente condanna”, ossia quella da lui rimediata in un altro e diverso processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Lo è un po’ meno quando a dire lo stesso sono altri, anche perché la realtà dei fatti, depurata dalla speculazione politica, ci continua a raccontare testardamente tutta un’altra storia.

Si deve partire dai fatti e dalle norme. Altrimenti il rischio è di tradire la realtà

È innegabile, insomma, che avesse ragione Massimo Bordin quando scrisse che “il processo ‘trattativa’ è un evento metagiuridico” e che “in fondo siamo di fronte a una elaborazione, più che processuale, narrativa di un tema reale, il rapporto fra mafia e politica”. Tuttavia, più che ai magistrati, il conto di questa situazione sarebbe da chiedere a chi in questi anni, su ogni fronte si è nutrito del lavoro dei magistrati per intossicare vita politica e informazione, favorendo, anche inconsapevolmente, una distorsione nella percezione di questioni che sono prima di tutto giudiziarie.

Certo, è inevitabile che il piano giudiziario si mescoli con quello della lotta politica e del resoconto giornalistico ma, nell’intervenire a qualsiasi titolo, si dovrebbe sempre avere cura di ricordare che ciascuno di essi ha regole proprie. E, per quanto possa apparire una ovvietà ripeterlo, è proprio alla luce delle regole del sistema processuale che i fatti che riguardano i processi andrebbero analizzati in prima battuta, per poi poterne trarre conseguenze anche sul piano politico. Si deve insomma partire dai fatti e dalle norme. Altrimenti il rischio è di tradire la realtà.

È un fatto il rapporto intrecciato tra alcuni appartenenti a corpi dello stato e persone collegate a Cosa nostra. Ed è un fatto che, nell’attività svolta nel contesto di quel rapporto, non sia ravvisabile – secondo i giudici di Palermo – alcun reato a carico degli uomini dello stato, mentre il contrario vale per i mafiosi. In attesa delle motivazioni della sentenza nelle quali ogni elemento risulterà chiarito, per comprendere il perché di questa valutazione asimmetrica si può intanto guardare ai capi di imputazione, ossia a ciò di cui gli imputati erano accusati, perché in ogni caso è su questo e solo su questo, e men che mai sulla storia d’Italia, che la corte di Palermo si è pronunciata.

Come ha spiegato l’ex magistrato Armando Spataro, l’accusa mossa dalla procura agli imputati “non è quella di avere dato luogo a una trattativa – reato non previsto dal nostro codice penale – ma di avere tutti, in concorso tra loro e a partire dal 1992, minacciato esponenti politici e delle istituzioni, prospettando stragi e altri gravi delitti, per condizionare la regolare attività del governo e di altri corpi politici”. Ed è quest’ultimo elemento che i giudici non hanno ritenuto provato oltre ogni ragionevole dubbio, almeno per ciò che riguarda le accuse mosse nei confronti degli uomini dello stato, a differenza degli altri imputati.

È invece possibile, scrive ancora Spataro, che alcuni ufficiali dei carabinieri abbiano contattato uomini di Cosa nostra “per capire quali fossero le condizioni poste dall’organizzazione criminale per interrompere” la lunga stagione di delitti culminata con la strategia stragista. Tuttavia, come detto, questa condotta non integra di per sé un concorso nel reato per il quale quegli uomini erano stati imputati poiché, in sintesi, secondo i giudici mancò la volontà di minacciare politica e istituzioni e interferire con attività politiche e istituzionali. Si trattò semmai, ed è ancora Spataro a parlare, di “scelte e prassi investigative politicamente ed eticamente censurabili”.

C’è, insomma, uno spazio per costruire un giudizio politico ma è altrove, e la realtà è che le sentenze servono a stabilire la responsabilità personale in relazione a fatti specifici e limitati, non per ricostruire la storia di un intero paese. E, paradossalmente, proprio questa vicenda ce lo dimostra, tenendo insieme la cosiddetta trattativa e il proscioglimento di alcuni degli imputati, circostanza che ad alcuni pare invece una contraddizione intollerabile. Allo stesso tempo, le sentenze non costituiscono però neppure il perimetro dentro il quale la ricostruzione giornalistica e quella storica debbano per forza essere costrette. Anzi, esaurito il compito di chi deve giudicare su alcune e ben determinate accuse, può iniziare il lavoro di chi – gli storici, soprattutto – quei fatti li potrà mettere in prospettiva per offrirli alla pubblica opinione in tutta la loro complessità, incluse le ombre che i tribunali per propria natura non possono illuminare.

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