21 maggio 2015 12:08

A essere pessimisti, si potrebbe dire che vendersi le partite è una pratica antica nel calcio italiano. In epoca televisiva, si dovrebbe tornare almeno alle immagini della stagione 1979-80, quando le volanti della polizia entrarono direttamente sul terreno di gioco. Allora furono coinvolti calciatori di primissimo piano come Bruno Giordano, Lionello Manfredonia e il futuro goleador dei Mondiali di Spagna Paolo Rossi.

L’ultimo scandalo generato dall’inchiesta della procura di Catanzaro sulle scommesse riguarda invece la Lega pro e la serie D. Ma, nel mezzo, tra questi due estremi, la parabola discendente del calcio italiano è stata inarrestabile. Nonostante i successi della nazionale e delle squadre di club, la caduta è stata costellata da partite truccate, pressioni sugli arbitri, ricorso sistematico al doping, altri scandali sulle scommesse (come quello del 2011 che ha coinvolto, tra gli altri, Beppe Signori, Stefano Mauri, Cristiano Doni) e spartizione borbonica dei diritti televisivi.

Attraverso il controllo sui diritti televisivi, che in Italia costituiscono il 43 per cento dei ricavi dei club di serie A, Infront Italia è passata al controllo diretto e indiretto di alcune società. Un nome che ai più non dice niente, ma che è opportuno segnarsi quando si comincia a discutere di chi tiene in mano le redini dell’intero sistema. A questo va aggiunta la nomina ai massimi vertici di dirigenti che si abbandonano a considerazioni razziste (Carlo Tavecchio) oppure omofobe (Felice Belloli), che sarebbero duramente sanzionate in qualunque paese europeo.

Da noi no, ogni scandalo è sempre sistematicamente riassorbito.

Tuttavia, nella vicenda delle partite truccate che interessa squadre, dirigenti e giocatori delle serie inferiori, c’è qualcosa di più. Quello che sgomenta non è solo la singola combine, ma il loro numero: questa prassi sembra essersi eretta a sistema, sotto il controllo di alcuni clan della ‘ndrangheta.

Non è un caso che il virus sia proliferato proprio all’interno del ventre molle del calcio italiano, la ex serie C e la serie D: cioè quel livello intermedio tra professionismo e dilettantismo che nell’ultimo decennio ha subìto una crisi inarrestabile. Drastico ridimensionamento del numero di squadre, ancora più drastica riduzione del numero dei gironi, fallimenti societari, presidenti avventurieri, stipendi non pagati, tifo violento, stadi fatiscenti. Basta scorrere le classifiche dei gironi di Lega pro e Lega dilettanti degli ultimi anni per rendersi conto che in ognuno almeno 2-3 squadre hanno concluso il campionato con punti di penalizzazione per illeciti finanziari o per il mancato pagamenti degli stipendi.

È questo il contesto all’interno del quale è proliferato il virus delle scommesse. Negli anni in cui la girandola di soldi si è ridotta per tutti, il nostro calcio di base, quello lontano dei riflettori della serie A, non ha saputo fronteggiare la sua recessione.

È come se nessuno, a cominciare dai massimi dirigenti, sia stato in grado di ideare e gestire una sorta di decrescita felice. Essa è stata invece incivile, rancorosa, belluina. Aperta a ogni possibile infiltrazione.

Lo scandalo del calcioscommesse è solo la punta di questo iceberg che si sta sciogliendo in fretta. Non c’è solo il caso del Parma. Negli ultimi anni molte grandi città hanno assistito al fallimento delle loro squadre: Siena, Ascoli Piceno, Cosenza, Catanzaro, Taranto, Brindisi.

Certo, poi, fa sempre effetto leggere di un allenatore che rischia di essere ucciso per aver vinto una partita che non avrebbe dovuto vincere. Si tratta di Ninni Corda, allenatore del Barletta. Si è salvato dalla possibile ritorsione solo perché, in tutta fretta, è riuscito a combinare un’altra partita, poi pareggiata 3-3.

Leggi una notizia del genere e, mettendo da parte le carte giudiziarie, non puoi non chiederti: ma come si trucca una partita? Cosa dice un allenatore ai suoi ragazzi prima di entrare in campo? E quando la partita è finita? E, soprattutto, come possono questi continuare a seguirlo negli allenamenti o nelle partite non truccate, quelle “vere”, come se nulla fosse?

Il problema è drammaticamente strutturale. Anzi federale, nel senso che investe direttamente la Federazione italiana giuoco calcio (Figc). Anche perché sono stati proprio i vertici dirigenziali e federali delle serie inferiori a sostenere la corsa vittoriosa di Tavecchio alla guida della Figc.

Xavier Jacobelli si è chiesto sul Corriere dello Sport cos’altro aspetti il presidente del Coni Giovanni Malagò “per nominare un commissario che rada al suolo questo sistema putrescente”.

Una mossa del genere è sicuramente di sua competenza, e sarebbe auspicabile. Ma più che un commissario istituzionale che rada al suolo i vertici di un sistema malato, servirebbe una riforma complessiva che coinvolga tutti, professionisti e non professionisti, allenatori, giocatori, dirigenti, tifosi, club di grandi città e club di provincia. Ammesso che possa essere ancora vero ciò che diceva Pasolini a proposito del calcio, e cioè che è “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”.

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