Per molti anni la politica statunitense ha fatto i conti senza l’oste, cioè senza pensare alle conseguenze di avere un debito pubblico enorme e in continua crescita. Economisti e banchieri centrali hanno cominciato a lanciare l’allarme già quarant’anni fa, quando il debito in rapporto al pil era meno della metà di quello di oggi (nel 1987 Alan Greenspan, all’epoca capo della Federal reserve, avvertì che “gli effetti del deficit saranno sempre più evidenti e con una certa urgenza”), ma gli sviluppi recenti potrebbero far precipitare la situazione. Ne abbiamo avuto una dimostrazione questa settimana.

Il congresso sta discutendo la legge finanziaria, che Trump ha voluto chiamare One big beautiful bill act (una grande e bellissima legge). L’obiettivo principale del provvedimento è estendere i tagli fiscali approvati nel 2017, durante il primo mandato del presidente e in scadenza alla fine di quest’anno, e aumentare la spesa per le forze armate e per il controllo dell’immigrazione.

Una parte dei soldi arriverebbe dai tagli al Medicaid – l’assicurazione sanitaria per le persone con un reddito basso – al programma di aiuti alimentari, all’istruzione e ai sussidi per l’energia pulita (in questo articolo del Washington Post c’è una tabella molto chiara con spese e tagli). I repubblicani più intransigenti spingono per ulteriori tagli alla spesa, mentre tanti altri nel partito temono le conseguenze politiche di misure simili, che potrebbero indispettire gli elettori nei loro distretti in vista delle elezioni di metà mandato.

È molto probabile che alla fine Trump riuscirà a imporre la sua linea agli scettici del Partito repubblicano, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che la legge farà aumentare drasticamente il debito pubblico. Secondo le stime del comitato per un bilancio federale responsabile, un istituto indipendente, la legge lo farebbe crescere di almeno 3.300 miliardi di dollari entro la fine del 2034. Il rapporto debito/pil passerebbe dall’attuale 100 per cento a un livello record del 125 per cento. Nel frattempo, il disavanzo annuale salirebbe dal 6,4 del 2024 al 6,9 per cento del pil.

Fino a qualche mese fa questi numeri, per quanto enormi, non avrebbero fatto scattare l’allarme. Vista la forte domanda globale di titoli del tesoro statunitensi e la forza del dollaro negli scambi internazionali, nessuno dubitava della capacità degli Stati Uniti di rifinanziare il loro debito. Questa condizione ha sempre dato alle finanze pubbliche statunitensi una flessibilità inimmaginabile per quelle di altri paesi, così i presidenti e i leader di entrambi i partiti hanno continuato per decenni a spingere faraonici programmi di spesa ignorando gli avvertimenti degli economisti.

Il gioco ha funzionato finché il mondo si è fidato degli Stati Uniti. Cioè finché Trump ha imposto (e poi in parte ritirato) dazi su quasi tutti i paesi, destabilizzando l’economia globale e alimentando i timori degli investitori per la loro esposizione alle attività in dollari. Da lì è partito un circolo vizioso, che negli ultimi giorni è stato alimentato dalle notizie sulla legge in discussione al congresso e soprattutto dalla decisione dell’agenzia di rating Moody’s di ritirare la tripla A (il giudizio di massima affidabilità) ai titoli di stato americani, cosa che porterà i creditori degli Stati Uniti a chiedere rendimenti più elevati per comprare il debito.

Questo non solo renderà più costoso per lo stato finanziare il debito ma farà crescere i costi dei prestiti per le famiglie e le imprese, e rallenterà la crescita economica. Nel frattempo si ridurrà la liquidità a disposizione del governo, peggiorando ulteriormente i conti.

La maggior parte degli economisti è convinta che gli Stati Uniti debbano fare in fretta qualcosa per riportare il debito federale su un percorso sostenibile, con ricette che potrebbero prevedere una riforma della previdenza sociale e aumenti delle tasse.

Il clima politico a Washington fa pensare che non si andrà in quella direzione. Come ha spiegato l’economista Rebecca Patterson sul New York Times, i leader di entrambi i partiti tendono ad affrontare il problema del debito non in modo diretto ma ricorrendo a una serie di trucchi contabili. Per esempio, nel caso dei repubblicani, prevedendo che i tagli fiscali non durino dieci anni, come da prassi, ma solo quattro (cioè scadano alla fine del mandato di Trump). In questo modo il costo complessivo del piano si riduce, il che ne facilita l’approvazione, e si passa la patata bollente al prossimo presidente, che dovrà decidere se prorogare i tagli (facendo aumentare ulteriormente il deficit), o lasciarli scadere (assumendosi di fatto la responsabilità di alzare le tasse a milioni di elettori).

Alla fine questa miopia politica riflette la realtà di un elettorato che per decenni si è abituato ad alti livelli di consumo sostenuti da prestiti facili. Non sorprende che gli statunitensi abbiano una scarsa comprensione della situazione fiscale del loro paese. Secondo Hoover institution, un centro studi conservatore associato all’università di Stanford, il 75 per cento degli intervistati ha dichiarato di essere preoccupato per l’aumento del debito federale ed è convinto che il congresso dovrebbe affrontarlo. Tuttavia, solo il 17 per cento pensa che la previdenza sociale sia il programma di spesa federale più consistente (lo è) e solo il 27 per cento dice che prorogare ulteriormente i tagli fiscali del 2017 farebbe crescere il deficit.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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