01 marzo 2002 00:00

Le mie capacità linguistiche sono messe a dura prova dai burocrati e dagli architetti israeliani. A volte penso che le divisioni che stanno creando in Cisgiordania, con muri, tangenziali di dimensioni californiane, gallerie, reticolati e ogni sorta di divieti, siano state fatte apposta per privarmi delle parole con cui descrivere questa perversa complessità.

Un pensiero megalomane, lo so, che esprime tutta la mia rabbia impotente. Una rabbia che spesso mi fa venire la pressione alta. È successo il 24 agosto a Nabi Samuel. Da settimane stavo studiando questo villaggio palestinese situato su una collina a nordovest di Gerusalemme. Si dice che l’area, dove ci sono una fortezza e una chiesa dei crociati conquistata dai musulmani e trasformata in moschea, era il luogo in cui pregava il profeta Samuele. I funzionari israeliani si vantano di questo luogo sacro come un tempio della tolleranza per tutte le religioni.

Ma è una finzione orwelliana. Dalla guerra del 1967 le autorità israeliane hanno fatto di tutto per trasformare quella vasta area – dove le colonie di Giva’at Zeev, Givon e Modiin crescono a dismisura – in una zona senza arabi. Ci sono riusciti a meraviglia.

A eccezione dell’enclave palestinese di Nabi Samuel, i cui residenti rifiutano di arrendersi ai blocchi stradali e alle vessazioni della polizia che hanno trasformato la loro vita in un inferno nascosto in mezzo ai ricchi quartieri bianchi. Pardon, ebraici. Non ho parole per descrivere questa sofisticata pianificazione israeliana.

*Traduzione di Nazzareno Mataldi.

Internazionale, numero 861, 27 agosto 2010*

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