29 settembre 2004 00:00

È la mattina del 6 aprile. Il funerale comincerà tra poche ore. Dopo una cerimonia laica, l’attore e regista ebreo-palestinese Juliano Mer Khamis, 53 anni, sarà sepolto nel kibbutz di Ramot Menashe. Il kibbutz è stato costruito sulle rovine di un villaggio palestinese: una scelta dolorosa, una contraddizione, ma inevitabile.

Sono due ore che cerco di scrivere un articolo su Juliano, ma sono troppo coinvolta, anche se non lo conoscevo bene. Non riesco a descrivere le contraddizioni che erano parte integrante della sua identità. Una settimana fa aveva mostrato ad alcuni visitatori la tomba di sua madre nel kibbutz: “È lì che voglio essere sepolto”. Quindi non nel cimitero cristiano dove riposa suo padre, palestinese. I genitori di Juliano, entrambi atei, erano comunisti.

Juliano non dev’essersi sorpreso troppo quando, uscendo dal suo teatro nel campo profughi di Jenin, è stato affrontato dall’assassino. Scherzava sempre sul fatto che non sarebbe morto di cause naturali. Prima di essere colpito, ha spinto via suo figlio di otto mesi. Il suo teatro era sovversivo perché ragazzi e ragazze recitavano insieme, ma soprattutto per i contenuti: la natura repressiva dei precetti culturali islamici, ma anche la colonizzazione israeliana.

Aveva scelto di vivere nel campo profughi, dove sua madre aveva aperto un teatro durante la prima intifada. Probabilmente, chi ha premuto il grilletto non voleva sopprimere il Juliano ebreo, ma quello palestinese, libero e fuori dagli schemi.

Internazionale, numero 892, 8 aprile 2011

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