04 dicembre 2017 17:46

La mia spalla sinistra conserva ancora il ricordo del gomito di Kawthar. Due settimane fa ho intervistato alcune persone a casa dei suoi genitori a Hebron, in Cisgiordania. Kawthar, sette anni, si è inginocchiata accanto a me e ha osservato con curiosità le mie dita che si muovevano sulla tastiera di un vecchio portatile. A un certo punto ha appoggiato il gomito sulla mia spalla, la testa sulla mia mano e mi ha chiesto il permesso di scrivere qualcosa. “Prima devo finire”, le ho detto. “Giocheremo più tardi”. Era la prima volta che ci incontravamo, ma con quel gomito Kawthar esprimeva un immediato e affettuoso senso di possesso.

La naturalezza con cui ha continuato ad appoggiarsi a me ha alleviato la durezza della storia che stavo ascoltando, quella di un giovane lavoratore palestinese picchiato dai poliziotti di frontiera due anni e mezzo fa, durante una manifestazione per il ventesimo anniversario del massacro nella moschea Ibrahimi compiuto da un colono israeliano.

Pochi giorni dopo Maayan, sei anni, ha appoggiato la testa sul mio grembo mentre le stavo leggendo una storia della buonanotte. È la nipote di un amico israeliano e vive a Gerusalemme. Conosco lei e la madre da quando sono nate. Ma mi sono sentita un po’ a disagio, perché non potevo raccontarle di una bambina della sua età che vive a Hebron, ha un padre perseguitato dai coloni, un frigo quasi vuoto e una casa con le finestre protette dalle reti perché i coloni tirano pietre e spazzatura.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 1 dicembre 2017 a pagina 22 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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