26 febbraio 2018 18:31

La settimana scorsa ho parlato con decine di palestinesi che speravano nella rimozione di un “divieto per motivi di sicurezza” che gli impedisce di entrare in Israele per lavorare. Hanno più possibilità di ottenere uno stipendio decente nel mercato del lavoro dell’occupante israeliano rispetto a quello della Cisgiordania. Tra i 70 euro al giorno che potrebbero guadagnare a Tel Aviv e i 18 euro al giorno (o meno) che guadagnano in Cisgiordania c’è la differenza che passa tra il poter garantire o no una buona istruzione ai figli.

I lavoratori si sono radunati per ore davanti all’ingresso di un ufficio dell’amministrazione civile israeliana che emana i permessi. Di recente le autorità israeliane hanno ipotizzato la revoca dei divieti almeno nelle zone della Cisgiordania in cui gli abitanti “non partecipano ad attività terroristiche o a lanci di pietre e molotov”.

Durante le dieci ore che ho passato con loro, mi hanno raccontato le loro speranze e la loro frustrazione. Ma invece di criticare Israele, ce l’avevano con il presidente Abu Mazen e l’Autorità palestinese. La cosa mi ha infastidito. Davvero non si rendono conto delle colpe di Israele? O parlano così perché sono israeliana? Una cosa è certa: non posso fare i nomi delle persone che hanno criticato duramente il loro presidente perché rischierebbero di essere minacciate o arrestate dalle forze di sicurezza palestinesi.

(Traduzione diAndrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it