21 aprile 2015 11:40

“Godard. Lo conosci Godard?”. Sono le cinque del mattino all’Iceclub, un bar gay del centro di Mosca, e mentre tre drag queen inscenano uno spettacolo di cabaret en travesti che ha qualcosa di berlinese, Maša Aliokhina delle Pussy Riot (o ex Pussy Riot, stando alle beghe interne al gruppo) mi racconta come ha cominciato a interessarsi di musica e di politica. I film di Jean-Luc Godard e le canzoni dei Graždanskaja Oborona, pionieri del punk a Mosca negli ultimi anni dell’Unione Sovietica. L’estetica al servizio del progetto sovversivo.

La piazza Rossa a Mosca, ottobre 2008. (Wolfgang Kaehler, LightRocket/Getty Images)

Tutto intorno la gente balla vecchi classici del pop russo e sovietico. Delle due Pussy Riot assurte a celebrità mondiale (la terza, Ekaterina Samutsevič, è sparita dai radar dopo essersi dissociata dall’azione del gruppo nella chiesa del Cristo redentore di Mosca) Maša sembra la più politicamente consapevole: tutti mi consigliano di parlare con lei. Nadia Tolokonnikova, con un caschetto di capelli di un brillante biondo platino, se ne sta a chiacchierare e a ballare poco distante.

“Siete stati voi. Dipende tutto da voi”, mi risponde quando le chiedo se con la preghiera punk del febbraio del 2012 pensavano di sollevare un caso di portata mondiale e di finire in prigione per quasi due anni, in colonie penali distanti migliaia di chilometri da Mosca e in condizioni durissime. “Noi non ce lo aspettavamo. Poi la stampa internazionale si è interessata al caso e tutto ha assunto delle proporzioni enormi”. Lo dice quasi infastidita, come a volersi schermire. Oggi è tornata a vivere a Mosca e gestisce, insieme alla sua amica Nadia, un’associazione che si occupa della difesa dei diritti dei carcerati e del sistema giudiziario in Russia.

E di recente è anche finita in tv, nel terzo episodio dell’ultima serie di House of cards dove – sempre accanto a Nadia e a Petr Veržilov, forse la mente dietro tutte le iniziative delle Pussy Riot e prima ancora tra gli ideatori del collettivo Voina –interpreta se stessa durante una cena ufficiale tra Frank Underwood e un presidente russo che sia chiama Petrov e somiglia un po’ troppo a una caricatura di Putin. “Certo che non mi piace il risultato finale”, ammette Maša. Considerati il radicalismo e la determinazione a non lasciarsi fagocitare dal sistema della comunicazione mainstream mostrati dalle Pussy Riot prima del successo globale, le chiedo se non si sia pentita della scelta. E pare di nuovo seccata. “Avevamo concordato in anticipo la scena. E conoscevamo la sceneggiatura e i dialoghi”, si limita a dire.

Poi ci tiene a ricordarmi che per tornare in albergo non devo più prendere i taxi non ufficiali che si fermano per strada con un cenno della mano, una vecchia tradizione moscovita, ma posso chiamare Uber. “Basta scaricare un’applicazione. È facilissimo, arrivano subito e non costano molto”. Quando esco è già giorno fatto e decido di andare a piedi.

Nella mia prima serata moscovita mi sono bastate un paio d’ore trascorse a girare in pochi bar del centro – il Redaktia, il Kamčatka, uno dei tanti locali della catena Žan-Žak – per imbattermi, grazie alle infinite conoscenze della mia guida, Ilia Azar, giornalista del sito Meduza e prima di Lenta.ru, in buona parte dei giornalisti e dei personaggi legati all’opposizione e in generale a quell’ambiente urbano e liberal che è stato il protagonista delle mobilitazioni cominciate dopo il voto legislativo del dicembre 2011.

Tra loro c’era anche Ilia Jašin, uno dei leader del partito liberale Rpr Parnas, di cui faceva parte anche Boris Nemtsov, e tra i fondatori del movimento Solidarnost. “Qualche giorno fa lo hanno chiamato dalla polizia”, mi racconta una ragazza che si chiama Olga, “e gli hanno fatto delle domande in merito alle minacce ricevute su internet e sulla sua richiesta di protezione. Poi gli hanno consigliato di prendersi qualcuno che gli guardasse le spalle”. Se non un velato avvertimento, comunque la conferma di un clima molto teso.

Eppure, a giudicare dai comportamenti, dai gesti, dai discorsi e dalle dinamiche che si osservano in una serata che potrebbe avere luogo in qualsiasi altra città europea, a Berlino come a Parigi, l’impressione è che ai ragazzi dell’intellighenzia moscovita il potere abbia voluto concedere uno spazio in cui essere liberi di vivere secondo le proprie inclinazioni e i propri desideri. Parlare di politica liberamente, prendersi gioco dell’ossessivo nazionalismo sempre più diffuso, fare il mestiere del giornalista in modo serio e indipendente per siti e pubblicazioni letti da un pubblico ristretto, frequentare i bar gay e baciare il proprio compagno per strada: tutto è possibile finché si rimane all’interno dei confini tracciati dal potere. Guai a superarli, però.

Il risultato è una netta polarizzazione della società, che sembra vivere in due dimensioni parallele: sulle macchine si vedono adesivi che insultano il presidente statunitense Obama e per strada si incontrano persone avvolte nelle bandiere della Repubblica di Donetsk o con il drappo arancione e nero che è diventato simbolo dei separatisti ucraini appuntato alla giacca, ma allo stesso tempo molte delle persone che incontro mi assicurano che non metteranno più piede in Crimea finché non sarà tornata sotto la sovranità ucraina.

Questa polarizzazione, tuttavia, è parecchio sbilanciata: secondo gli ultimi sondaggi, l’85 per cento dei russi sta con il presidente Vladimir Putin, mentre l’appoggio all’opposizione è sempre più ridotto. E, ormai da qualche anno, anche gli spazi di libertà sono sempre più angusti. Con la macchina della propaganda che funziona a pieno regime, e Putin che sembra aver adottato un’ideologia nazionalconservatrice per niente scontata una decina di anni fa, la situazione appare sempre più soffocante. Molto ha a che fare anche con il denaro e il lavoro.

A Mosca, per esempio, negli ultimi anni il comune ha finanziato e supportato una serie di importanti attività culturali e istituzionali – compagnie teatrali, esposizioni di arte contemporanea, campagne pubblicitarie, progetti di riqualificazione urbana, per esempio – che hanno arricchito la vita cittadina e sono state la linfa vitale per buona parte degli esponenti dell’intellighenzia liberal della capitale.

Ma il giocattolo si è rotto. All’inizio di marzo Sergej Kapkov, capo del dipartimento della cultura del comune di Mosca e ideatore di questa strategia di modernizzazione che negli ultimi quattro anni ha contribuito a cambiare il volto della città, si è dimesso. O è stato costretto a farlo, come suggerisce qualcuno. E da diversi mesi i segnali di un’ulteriore stretta non sono mancati. L’anno scorso c’è stato il licenziamento di Galina Timčenko, la direttrice del sito d’informazione Lenta, seguito dalle dimissioni degli altri giornalisti e dalla nascita di Meduza, un nuovo progetto editoriale con sede in Lettonia per aggirare i controlli della censura russa.

Qualche tempo dopo la redazione della tv satellitare Dožd è stata sfrattata dai locali dell’ex complesso industriale Krasny Oktiabr, sull’isola Bolotnij, e si è trasferita in uno spazio più piccolo e meno centrale. La stessa sorte è toccata alla compagnia teatrale Teatr.doc, che mischia la drammaturgia classica con la critica sociale e la politica e che a dicembre del 2014 era già stata visitata dalla polizia per aver mostrato un documentario sul conflitto ucraino.

Anche diverse persone che avevano preso parte alle manifestazioni di Bolotnaja hanno preferito abbandonare la Russia e trasferirsi a Londra o nei paesi baltici, per evitare di incorrere nella coda lunga della repressione delle mobilitazioni di quasi quattro anni fa.

Ed è notizia recentissima, del 18 aprile, che la militante ecologista Evgenja Čirikova, protagonista della battaglia per salvare la foresta di Khimki, ha deciso di lasciare Mosca con la famiglia per andare a vivere in Estonia. Per una strana coincidenza, era anche una cara amica di Boris Nemtsov.

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