Commentando il post della scorsa settimana Alfredo Accatino domanda e chiosa, un po’ per scherzo e un po’ no: “La creatività è una sola? (nasce così un problema di accenti anche per i lettori romani…)”.
Per rispondere al quesito con l’accento acuto (una sóla) facciamo un passo indietro.
Siamo nel 1957, in piena guerra fredda. I russi mandano in orbita, a distanza di un mese, lo Sputnik1 e lo Sputnik2. Gli americani la prendono malissimo: sbalordimento, umiliazione, paranoia e spirito di rivalsa si mescolano in un cocktail peculiare, che verrà ricordato con il nome di
- Sputnik crisis*, o Sputnik shock. Al quale l’America reagisce in due modi: accelera il programma spaziale e dopo soli 84 giorni lancia l’Explorer1. Mette sotto esame l’intero sistema nazionale dell’educazione, poco efficace e orientato a premiare il pensiero conformista, e con il National defense education act decide di investire tanti, ma tanti soldi per sviluppare l’istruzione, l’innovazione e la creatività.
Così, sull’onda della rivalsa e dei dollari, in una manciata di anni gli studi e le prospettive riguardanti la creatività si moltiplicano. Nel 1961 il ricercatore Mel Rhodes pubblica un articolo intitolato “An analysis of creativity”, che mette ordine tra le decine di definizioni di “creatività” ormai disponibili, sovrapposte e intrecciate, dividendole - questa è l’idea forte - in quattro grandi categorie interconnesse: people, process, places, product. Sono le 4P della creatività.
Mettendo in evidenza che la creatività riguarda persone con determinati tratti e stili, che attuano un peculiare processo di ricerca, in contesti tipici, producendo risultati che hanno requisiti ricorrenti, Rhodes non solo traccia i confini del fenomeno, ma ne mette in evidenza una caratteristica fondamentale: la creatività (come, per esempio, la capacità di imparare) è una metacompetenza. In quanto tale è transdisciplinare e si può esprimere negli ambiti più disparati. Anzi, per dirla tutta, trae profitto dalla contaminazione tra ambiti diversi. Dunque la creatività è una sóla, ma si applica ai campi più diversi: arti, scienze, tecnologie, impresa…
Per rispondere al quesito con l’accento grave balziamo fino agli inizi del secolo scorso. Il matematico francese Henri Poincaré, nel saggio Scienza e metodo (1906), racconta il proprio processo creativo. E scrive: “Un risultato nuovo ha valore, se ne ha, nel caso in cui stabilendo un legame tra elementi noti da tempo, ma fino ad allora sparsi e in apparenza estranei gli uni agli altri, mette ordine, immediatamente, là dove sembrava regnare il disordine […] Inventare consiste proprio nel non costruire le combinazioni inutili e nel costruire unicamente quelle utili… Soltanto alcune di esse sono armoniose – utili e belle insieme”.
Poincaré individua così, e in modo limpido, le due coordinate di base di quanto possiamo definire “creativo”: si tratta di ciò che, essendo nuovo, è anche utile perché adeguato, funzionale, esatto, semplice, essenziale (e quindi, in senso matematico, “bello”). Oggi la definizione di Poincaré è universalmente condivisa dagli studiosi, e tutti (dall’edizione inglese di Wikipedia alla Harvard business school) convergono sul fatto che si possa riconoscere come creativo ciò che, essendo nuovo, risulta appropriato: “utile” in termini economici, estetici, etici…
Insomma: la creatività, per essere tale, non può essere una sòla (con l’accento grave che a Roma e dintorni indica “fregatura”). Del fatto che qui da noi la categoria dell’appropriatezza spesso venga trascurata immagino che torneremo a parlare.
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