14 gennaio 2013 11:16

Uno può pensare che il peso della tv in tempo di elezioni dipenda dalla scarsa propensione nazionale alla lettura e dalla modesta diffusione della stampa quotidiana e periodica. Dal fatto che il web ancora oggi non raggiunge ampie fasce di elettori. O dal fatto che, quando si decide chi votare, le componenti emotive (simpatia, adesione, fiducia) contano almeno quanto quelle razionali soprattutto, ma non solo, per le persone meno informate.

O, ancora, uno può pensare che tutto derivi dall’abbandono del territorio da parte dei partiti: oggi non c’è più traccia della rete capillare di formazione, informazione, dibattito e attivismo che esisteva ai tempi di Peppone e Don Camillo, e fino agli anni settanta. O uno può pensare che la causa stia nella pervasiva personalizzazione della politica (fatto, peraltro, non recentissimo).

O, magari, uno può pensare che il fenomeno derivi dall’assenza di programmi e soluzioni in sé vincenti. Oppure, a essere più ottimisti, dalla difficoltà di comunicare programmi e soluzioni che, sì, ci sarebbero, ma signora mia com’è difficile farli capire alla

ggente.

In ogni caso bisognerà pur fare qualcosa per acquistare popolarità e vincere, no? E allora la soluzione semplice è farsi comunque vedere in tv, come fanno tutti, e intanto provare a vincere lì. O, se proprio non ci si vuole andare, inventarsi un modo per esserci, a costo di attraversare a nuoto lo stretto di Messina.

Quali siano le cause (e probabilmente sono tutte queste assieme) sta di fatto che l’indispensabile confronto politico tra idee, strategie e visioni trova ancora oggi il suo centro nella televisione. Ma la messa in scena televisiva implica una necessaria spettacolarizzazione (altrimenti, ciao audience). Così, il dibattito finisce per somigliare sempre più a una competizione sportiva la cui essenza consiste nel mostrare il puro confronto muscolare tra singoli campioni.

A decretare la vittoria o la sconfitta dei campioni sono la capacità di incassare o evitare colpi, di reagire in modo veloce e di tener botta, la resistenza, il vigore, l’energia e l’aggressività.

Perfino l’inventario dei problemi (dopotutto staremmo parlando di scelte politiche, di futuro, eccetera) citati più che affrontati, si traduce in un repertorio di colpi (“Adesso ti tiro un cazzotto di irpef che ti sfonda, eh”. “Ma io ti schianto con l’ultimo dato sulla disoccupazione giovanile”).

Qui sta il punto: la politica è per forza di cose difficile da leggere, ma la politica ridotta a gara è appassionante da guardare. Per guardarla si accende la tv, e ci si resta appesi per commentare quanto succede (200mila tweet sul confronto Berlusconi-Santoro). Ogni scambio viene interpretato in termini di attacco e difesa, di colpi inferti e ricevuti, e quello che sembra interessare davvero tutti, e anche i giornalisti, è chi vince e chi perde, e con che punteggio.

Chi sa di sport potrebbe divertirsi a decidere, a partire dallo stile dei contendenti e dalle loro mosse, se quanto vede di volta in volta in televisione somiglia più al pugilato, alla scherma, al judo o al tennis, o magari a un fulmineo contropiede di una partita di calcio (del tutto assente, però, il piacere estetico connesso con l’eleganza del gesto atletico, quello vero). Ma la messa in scena televisiva della gara politica può ulteriormente avvitarsi su se stessa, fino a trasformarsi in una messa in scena della messa in scena.

Il confronto Berlusconi-Santoro che ha fatto esplodere l’audience di La7 mi ha tanto ricordato quella imitazione spettacolarizzata della lotta e quella parodia della competizione che è il wrestling. Due vecchi, bolsi campioni sono isolati al centro di un’arena. Tra il gran rumore e l’agitazione, trovano però il tempo, tra un colpo e l’altro, di ammiccare al pubblico e gigioneggiare. E alla fine nessuno si fa davvero male. Ma gli incassi risultano più che soddisfacenti per entrambi.

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