11 febbraio 2014 10:17

Vittorio Cucchi mi invia (grazie!) un articolo appena uscito sul New York Times, il quale segnala che in molte università americane la creatività ha ormai raggiunto lo status di disciplina accademica.

E, attenzione, non stiamo parlando di corsi di laurea che studiano le dinamiche della creatività sotto il profilo psicologico o manageriale: quelli già esistono, per esempio alla Harvard business school, dove da decenni Teresa Amabile fa un gran lavoro di ricerca. Stiamo parlando di interi corsi volti a sviluppare un approccio creativo negli studenti.

A pensarci bene, però, la notizia vera non è il fatto che i creative studies si stiano moltiplicando come funghi nelle università, da New York a Philadelphia, a San Francisco: dopotutto, nelle pieghe del sistema universitario americano si annidano i corsi più strani.

La notizia vera è il fatto stesso che il New York Times dedichi a tutto ciò un lungo articolo, ricordando dopo qualche riga che già da una ventina d’anni la Bloom’s taxonomy è stata rivoluzionata, ponendo la capacità creativa al vertice degli obiettivi educativi (la Tassonomia degli obiettivi educativi è uno strumento abbastanza noto – non so in quale versione – anche da noi).

Il New York Times elenca anche diversi dati: secondo una ricerca della Ibm che ha coinvolto 1.500 amministratori delegati in 33 diversi settori industriali, la creatività è il fattore cruciale di successo.

Oggi “creatività” è la parola più in voga tra i profili di LinkedIn. E l’insegnamento del pensiero creativo (il presupposto è che si possa “insegnare”: ma sul tema torno tra qualche riga) entra di prepotenza perfino nei corsi di scienze, di ingegneria, di legge, insieme all’addestramento necessario per affrontare l’ambiguità e i fallimenti che in ogni processo creativo sono connaturati.

Il motivo della proliferazione è semplice: per esempio, gli studenti iscritti a justice e safety pensano che, dopo aver studiato i problemi relativi a giustizia e sicurezza, avranno bisogno di un bel po’ di creatività per provare a risolverli. E, detto tra noi, il ragionamento non fa una piega.

Intanto l’Economist pubblica un articolo per molti versi speculare a quello uscito sul New York Times. Titolo: “Chi non sa, insegna”. Riguarda le scuole di business administration che, schiacciate da una concorrenza sempre più agguerrita, rinunciano a fare ricerca e appaiono incapaci di praticare su se stesse il rinnovamento manageriale e strategico che pure affermano di insegnare. Esortazione nemmeno troppo implicita: “Forza, sviluppate il vostro stesso cambiamento”.

In tutto questo gran fermento (del quale, sono pronta a scommetterlo, qualche eco distorta, entusiasta e semplificata arriverà presto anche da noi) ci sono due cose che vorrei segnalarvi.

Eccone una: non è la prima volta che negli Stati Uniti si accende una potente fiammata d’interesse per il pensiero creativo. È già capitato al culmine di un altro momento di crisi, a metà del secolo scorso quando, nell’ottobre del 1957 e in piena guerra fredda, i russi lanciano lo Sputnik, e dopo un solo mese il più complesso Sputnik2, con la cagnolina Laika a bordo.

Gli Stati Uniti vengono travolti da un’intensa ondata emotiva in cui si mescolano allarme, paranoia e spirito di rivalsa. Reagiscono con due lanci: il primo riguarda l’Explorer1, costruito in soli 84 giorni e messo in orbita da Cape Canaveral il 31 gennaio 1958. Il secondo riguarda un programma volto a rivoluzionare l’intero sistema universitario (violentemente accusato di favorire il conformismo), a sviluppare gli studi scientifici e a incoraggiare quelli sulle dinamiche del pensiero creativo.

Così, con il National defense education act (Ndea), il governo riversa miliardi di dollari nel sistema educativo: la creatività, lo ricorda Businessweek, diventa di moda come mai prima di allora. In una manciata d’anni gli studi sul tema crescono in maniera esponenziale e gli americani riescono ad arrivare primi (1969) sulla Luna. Staremo a vedere se questa volta arriveranno da qualche altra parte, e dove.

Ed ecco la seconda cosa che vorrei segnalarvi: l’approccio americano al tema della creatività è… americano, appunto. Cioè, pragmatico, vagamente muscolare e fondato su una ricetta semplice: tanti soldi + tanto addestramento. Tra l’altro i corsi di creatività, a uno sguardo europeo, possono risultare paradossalmente troppo pieni di procedure e ingiunzioni (pensa fuori dagli schemi! Produci più alternative che puoi! Sii rilassato! Approfondisci! Finalizza!).

Da noi, credo, per rianimare la stremata capacità creativa nazionale basterebbe avere un ambiente non così ostile a chi cerca, tra mille difficoltà, di trovare soluzioni innovative o di svolgere bistrattate e malpagate professioni creative. Basterebbe un sistema educativo appena un po’ più attento a motivare e coinvolgere gli studenti. Basterebbe rompere qualche stereotipo e qualche soffitto di cristallo e liberare un po’ della creatività delle donne. Basterebbe non rimangiarsi le detrazioni fiscali sull’acquisto di libri. Basterebbe dire che la cultura è una risorsa, e trattarla come tale. Ma già: da questa parte dell’oceano, è come chiedere la luna.

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