07 novembre 2016 12:43

Il colpo di genio arriva a sessant’anni”, titola a effetto, e in maniera un po’ impropria, la prima pagina del Corriere della Sera di qualche giorno fa. “Lampi di genio a sessant’anni!”, ribadisce il titolo dell’articolo nelle pagine interne. Il testo dà conto dei risultati di una ricerca recente, svolta dall’università di Oxford e pubblicata su Science.

Obiettivo della ricerca è capire se sia possibile predire lo sviluppo delle carriere scientifiche, e se esistano degli schemi ricorrenti. È tutt’altro che un puro esercizio accademico: ai finanziatori e alle università ovviamente serve sapere in anticipo sul successo di quali scienziati conviene puntare. Ma, come vedremo, nei risultati c’è qualcosa che interessa anche tutti noi, e molto.

Per capire meglio il meccanismo del successo scientifico, i ricercatori di Oxford, tra i quali c’è l’italiana Roberta Sinatra, si affidano ai big data: prendono in esame sotto il profilo quantitativo le carriere di oltre diecimila scienziati attivi in sette diverse discipline, dalla fisica alle scienze cognitive, alla chimica, all’economia. In sostanza, i ricercatori contano il numero della pubblicazioni prodotte da ciascuno scienziato e ne valutano l’impatto, cioè la quantità di citazioni che ogni pubblicazione si guadagna all’interno della comunità scientifica internazionale. Le più rilevanti sono anche le più citate.

Oltre l’anagrafe
Facendo questo, i ricercatori scoprono che, se gli scienziati giovani sono più produttivi in termini di numerosità delle pubblicazioni (e quindi statisticamente avrebbero maggiori probabilità di successo), in realtà uno o più picchi d’impatto e di successo possono verificarsi in qualsiasi punto di una carriera scientifica, anche in tarda età. La rilevanza scientifica dei risultati prodotti, insomma, non diminuisce con l’età, e a contare non è il puro dato anagrafico, ma qualcos’altro.

Come ricorda Pasteur ‘il caso favorisce la mente preparata’

Il qualcos’altro è costituito dalla combinazione di due elementi. Il primo è quello che i ricercatori chiamano fattore Q, che rimane costante nell’arco dell’intera carriera: indica la qualità intrinseca del lavoro, e delinea la capacità del singolo scienziato di usare al meglio le conoscenze di cui dispone grazie agli studi che ha fatto, alla capacità tecnica e a quella di tessere relazioni, alla capacità di comunicare…

Il secondo elemento è quello che i ricercatori chiamano fattore p: una dose di fortuna o, meglio, di serendipità. È la capacità di trovare ciò che non si sta propriamente cercando. Le storie di serendipità, tra invenzioni e scoperte, sono frequenti e affascinanti, e riguardano i campi più diversi: dalla scoperta dell’America a quella della penicillina, dall’invenzione del teflon alla concezione di internet. Ma, come ricorda Pasteur “il caso favorisce la mente preparata”. Solo chi ha una formazione tale da permettergli di interpretare in modo adeguato una casualità può trarne vantaggio. E solo chi è abbastanza tenace ha la possibilità di imbattersi, prima o poi, in una casualità potenzialmente fertile.

La visualizzazione dei risultati della ricerca di Oxford è contenuta in questo (bellissimo) video, ed è impressionante. Presentandola, gli autori la definiscono The hope project, il progetto della speranza, perché dimostra che, a prescindere dallo stadio di carriera, il successo può essere dietro l’angolo per chiunque sia abbastanza tenace e competente. In realtà proprio questo, che sembra essere il dato più clamoroso, è stato almeno parzialmente anticipato dalle ricerche psicometriche di Dean Keith Simonton, che ha indagato già alla fine del secolo scorso i risultati creativi ottenuti in un più ampio ambito di discipline, scientifiche e artistiche.

È vero”, scrive Simonton, “che Newton compie alcune delle sue scoperte maggiori nell’annus mirabilis 1666, a ventitré anni. Ma d’altra parte l’astrologo polacco Niccolò Copernico termina di scrivere il De revolutionibus orbium coelestium quando ha 70 anni. È vero che la scultrice e architetta sinoamericana Maya Lin Ting progetta a 21 anni il suo lavoro più noto, il memoriale dei veterani del Vietnam di Washington. Ma è vero che l’architetto americano Frank Lloyd Wright a 72 anni progetta Fallingwater, la casa sulla cascata, definita miglior opera di architettura americana di sempre”.

La vecchiaia può essere, e in molti casi è, un periodo di creatività fenomenale

Il mio vecchione favorito è però il chimico francese Michel Eugène Chevreul, che nella prima parte della sua vita si occupa di acidi grassi e inventa la margarina. Poi cambia sfera d’interesse, e a cinquant’anni pubblica studi sulla luce e sul colore che influenzeranno i pittori divisionisti. Poi, superati i novant’anni, decide di cambiare ancora e, da vero esordiente di successo, è uno dei pionieri di una nuova disciplina: la gerontologia. Pubblicherà il suo ultimo libro a centodue anni. Il suo nome è scritto sulla torre Eiffel.

“Diverse ricerche empiriche”, scrive ancora Simonton, “hanno dimostrato che la capacità creativa può rinascere in modo sostanziale nell’ultima parte della vita. Esaminando in dettaglio 1.919 lavori di 172 compositori classici, si nota l’emergere di uno schema affascinante: in vecchiaia le composizioni diventano più concise, più semplici, le melodie più controllate e pregevoli sotto il profilo formale. Spesso il risultato è un capolavoro”.

Tutto questo significa, conclude Simonton, che la vecchiaia può essere, e in molti casi è, un periodo di creatività fenomenale. Nella storia di Chevreul c’è un altro dato interessante per tutti: un modo per essere creativamente longevi è darsi un nuovo interesse. Chi affronta problemi nuovi porta con sé, insieme all’esperienza maturata in altri ambiti, anche uno sguardo fresco, che gli permette di avere più facilmente intuizioni di valore.

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