03 giugno 2019 12:48

È successo una manciata di giorni fa. Nel corso di una discussione online piuttosto accesa, all’interno di un gruppo di persone che apprezzo e stimo, e giusto per segnalare che la differenza delle posizioni non pregiudicava, appunto, l’apprezzamento e la stima, ho chiuso un messaggio scrivendo “un abbraccio”.

Non l’avessi mai fatto.

Mi è stato immediatamente segnalato che ormai, in rete, scrivere “abbracci”, e anche “bacioni”, può essere inteso come atto ostile ed è politicamente assai connotato: in sostanza, si tratterebbe di uno sberleffo, volto a delegittimare l’interlocutore liquidando l’interazione in maniera sbrigativa e arrogante. Insomma: una cosa da non fare proprio.

Capisco il punto e intuisco senza fatica i riferimenti.

D’altra parte, per quanto mi riguarda, da oltre sessant’anni abbraccio e più di qualche volta bacio le persone che mi piacciono, dal vivo e per iscritto. Preferirei poter continuare a farlo senza dovermene scusare.

Aggiungo che, alla fine, dal vivo ci siamo chiariti (e abbracciati).

Un riscontro
Ma il carattere vagamente surreale dell’episodio resta. E l’episodio stesso continua a tornarmi in mente, con un ampio corredo di quesiti e considerazioni. Se mi persuado a raccontarvele è perché ho appena trovato un riscontro.

Sull’Espresso del 2 giugno c’è la sintesi di un dibattito tra scrittori che “si interrogano sull’impegno dell’intellettuale oggi”. Insomma: roba seria, mica le malaccorte chiacchiere in rete e i quesiti peregrini della sottoscritta. Leggo che Chiara Valerio afferma: “Non mi ha mai soddisfatto la polarizzazione fra destra e sinistra. A partire dai simboli”. “Un esempio: al funerale di Enrico Berlinguer nel 1984 sventolavano bandiere con la falce e martello e tantissime bandiere italiane. Quelle bandiere italiane sono diventate appannaggio di Forza Italia. Com’è possibile che un simbolo popolare” (e, aggiungo, che il simbolo nazionale per definizione) “sia stato lasciato a una sola parte politica?”.

E Matteo Nucci riprende: “Aver consegnato simboli e parole di tutti solo a una parte politica è stato catastrofico. Patria: rileggiamo le lettere dei condannati a morte della resistenza. Di patria si parla di continuo. Per questo trovo inaccettabile che molti intellettuali dicano che la parola fa schifo”.

Almeno al sequestro simbolico di rosari, santi e madonne si è opposto con energia il mondo cattolico

In effetti, sembra che oggi a usare senza esitazioni il tricolore (grazie!) siano soprattutto i nostri meravigliosi prodotti della filiera italiana del cibo. E anche un bel po’ di prodotti falsi, fatti all’estero, che proprio abusando del tricolore si mascherano da italiani: uno scherzetto che vale cento miliardi.

L’accesso al termine “patria”, invece, continua a essere del tutto sconsigliato a chi non voglia apparire pericolosamente nostalgico. Per non parlare di “patriottico” e “patriota”. Ma anche “Italia” e “italiani” sembrano essere diventati termini da maneggiare con cura, e da cui magari tenersi alla larga.

Piccolo problema: come ci si può dire europei senza dirsi italiani?

Ma non c’è solo questo.

Patrimonio comune
Qualche anno fa mi è capitato di lanciare un appello per invitare a non abusare di parole inglesi quando le corrispondenti parole esistono nella lingua italiana, funzionano bene, si pronunciano più facilmente e si capiscono meglio. Per esempio: perché dire “ti faccio una call” (15 caratteri) invece che “ti telefono” (10 caratteri: è anche più breve)?

Bene: sembra che per alcuni possa essere politicamente scorretta perfino una blanda esortazione a farsi capire usando bene la nostra lingua (e contemporaneamente a imparare l’inglese, lingua che peraltro solo poco più della metà dei connazionali sa parlare).

Ah: anche il vecchio, sano, bonario e umile buonsenso delle nonne è diventato pericoloso da evocare. Per fortuna, almeno al sequestro simbolico di rosari, santi e madonne si è opposto con energia il mondo cattolico.

E qui vorrei segnalare sommessamente tre punti, scelti nell’ampio mazzo delle cose che mi frullano in mente: il primo è che la bandiera e il buonsenso, la patria e la lingua italiana, i baci e gli abbracci (e ovviamente il rosario e i santi, per chi li frequenta sul serio) sono un patrimonio comune e appartengono a tutti.

Il secondo punto è questo: abbandonare territori simbolici perché presumibilmente “contagiati” dall’uso o dall’abuso che una qualsiasi parte politica ne fa, rinunciando di conseguenza a proteggerne o a ridefinirne il valore e il senso, non è una buona idea. Ed è un segno di debolezza e di assenza di coraggio (forse anche coraggio è una parola sospetta?).

Per inciso, e se proprio vogliamo dirla tutta: l’orrore per il contagio e la difesa a ogni costo di una presunta purezza, quelli sì, sono concetti a mio avviso piuttosto pericolosi. Anche perché si trova sempre qualcuno che è, o si dichiara, più puro ancora.

Presidio dei territori
Il terzo punto è questo: sono sempre più convinta che oggi il confronto politico si giochi sul presidio dei territori, che siano territori fisici come le periferie, àmbiti sociali come il precariato o i giovani che non studiano né lavorano, luoghi simbolici come la bandiera e la patria, o culturali come la storia o la lingua italiana.

E ancora spazi di espressione e di incontro, come un festival, una manifestazione culturale o un convegno. O contesti emotivi come la solitudine, la paura del futuro o la speranza. E territori mediatici come le trasmissioni televisive, o virtuali come i social network.

Esserci e presidiare è laborioso e faticoso, ed è scomodo. Abitare l’ambivalenza e le zone grigie espone all’ambiguità e al rischio del fallimento. Ma abbandonare a se stessi i simboli e i luoghi, astenersi, isolarsi e andarsene altrove significa coltivare l’illusione di preservare la propria virtuosa rettitudine condannandosi però, nei fatti, all’irrilevanza. E alla perdita di un bel pezzo di identità.

Un abbraccio a tutti.

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