26 marzo 2020 16:08

Stare chiusi in casa e continuare a farlo è indispensabile.

Stare chiusi in casa può essere difficile.

Ma tutti noi dobbiamo capire che oggi stare chiusi a casa è obbligatorio e cruciale, perfino se è così difficile e snervante.

Può esserlo perché le case sono piccole. Perché in casa non c’è nessun altro e il senso di solitudine diventa soverchiante. Oppure, al contrario, perché si sta in troppi in uno spazio limitato. Perché i bambini sono irrequieti. Perché le relazioni interpersonali non sempre sono serene come vorremmo e qualche volta, purtroppo, sono tossiche. Perché siamo tutti spaventati e preoccupati. O perché, là fuori, la primavera appare languida e seducente come non mai.

Ma non si tratta unicamente di questo.

“Tutta l’infelicità umana deriva da una cosa sola: non riuscire a starsene tranquilli in una stanza”, scrive Blaise Pascal.

Vagare senza meta
Una ricerca molto citata, svolta nel 2014 dal dipartimento di psicologia dell’Università della Virginia, prova a dar conto di questa intuizione. Si intitola Just think: the challenges of the disengaged mind.

La tesi sostenuta dalla ricerca avrebbe senza dubbio suscitato l’interesse di Pascal, ed è sintetizzata nelle poche righe dell’abstract: le persone detestano “l’idea di starsene anche soltanto per sei o quindici minuti tutte sole in una stanza, senza nient’altro da fare che pensare. E molte preferiscono infliggersi una scossa elettrica piuttosto che restare con l’unica compagnia dei propri pensieri”.

Per quanto ne sappiamo, solamente la specie umana è capace di pensare in modo introspettivo: lo fa quando distoglie l’attenzione dalle sollecitazioni esterne e si rivolge a se stessa ricordando il passato, progettando il futuro o immaginando.

È uno stato mentale contraddistinto dall’attivazione di un’ampia rete di aree cerebrali: il default mode network. Questa rete si attiva ogni volta che l’attenzione non è catturata da un qualsiasi compito esterno, anche semplice come guardare un film alla tv. E si attiva non solo quando la mente se ne va in cerca di un’idea o di una soluzione, ma anche quando vaga senza un obiettivo. E, vagando senza meta, si annoia.

La domanda che i ricercatori della Virginia si pongono è questa: le persone scelgono intenzionalmente di mettersi a pensare? E si tratta di una condizione piacevole? Così, arruolano sei diversi gruppi di studenti, ritirano tutti i loro effetti personali, compresi materiali per scrivere e telefoni, e gli chiedono di stare chiusi in una stanza con la sola compagnia dei propri pensieri: l’unica regola è rimanere seduti senza addormentarsi. Quando l’esperimento è finito, partono le domande.

La tendenza ad andare in cerca di un qualsiasi stimolo per contrastare la noia, scosse elettriche comprese, è confermata da diverse ricerche

La maggioranza riferisce di aver trovato difficile concentrarsi. Quasi tutti dicono che la mente si è messa a vagare per conto suo. Metà circa trova sgradevole l’intera esperienza. L’esperimento si svolge in laboratorio, ma viene poi ripetuto dagli studenti a casa. Dove concentrarsi risulta ancor più difficile, la percezione di sgradevolezza aumenta ulteriormente e molti “barano” sbirciando il cellulare.

In un esperimento successivo, ad alcuni soggetti scelti a caso vengono assegnati dei compiti da svolgere da soli: leggere, ascoltare musica, navigare in rete. Ad altri tocca limitarsi a “pensare”. Risulta che i primi apprezzano molto di più il fatto di aver qualcosa da fare, e trovano molto più facile concentrarsi.

A questo punto, i ricercatori si fanno la domanda cruciale: se la maggior parte delle persone non ama “pensare e basta”, sarebbe addirittura disposta a fare qualcosa di sgradevole piuttosto che ritrovarsi in quella condizione?

Quindi, mettono gli studenti di fronte a due opzioni: restare per 15 minuti da soli a pensare, oppure ricevere una scossa elettrica. Molti optano per la seconda alternativa.

Ma l’evidenza più clamorosa è contenuta nell’ultimo esperimento della serie: ora a tutti i partecipanti si chiede di stare 15 minuti a pensare. Chi vuole, ha l’opzione di infliggersi anche una scossa elettrica premendo un bottone. Bene: il 67 per cento degli uomini e il 25 per cento delle donne sceglie questa opzione.

Si noti che, in precedenza, tutti i partecipanti avevano ricevuto un esempio della scossa elettrica, e si erano dichiarati disposti a pagare pur di non ricevere una nuova scossa.

La tendenza ad andare in cerca di un qualsiasi stimolo per contrastare la noia, scosse elettriche comprese, è confermata da ulteriori ricerche (per esempio, questa. Oppure quest’altra).

Mente infernale e paradisiaca
Tutto ciò sembra paradossale: com’è possibile che qualcuno scelga volontariamente di infliggersi una scossa elettrica? Ed è la prospettiva di mettersi a pensare, a sembrare così terribile, oppure si tratta del fatto che la mente, quando non sa a che cosa pensare, facilmente comincia a vagare per conto suo?

In esergo alla ricerca c’è una citazione del poeta John Milton: “La nostra mente può fare di un inferno un paradiso e di un paradiso un inferno”.

E forse proprio nella citazione di Milton c’è una chiave.

Quando la mente vaga senza riuscire a trovare un oggetto adeguato, l’automatismo della noia, con il suo pesante corredo di ansia, irrequietezza e depressione, si avvia implacabile. “La percezione rallentata del passare del tempo e il sentirsi impossibilitati a evadere rendono l’esperienza soggettiva della noia più negativa e aumentano il desiderio di cercare obiettivi ed esperienze alternative” (perfino se queste sono rischiose o dolorose), scrivono Shane W. Bench ed Heather C. Lench a pagina 13 di un articolo intitolato _On the function of boredom__._

Il lato luminoso della noia, l’ho raccontato in un precedente articolo, consiste nel fatto che l’essere annoiati ci spinge a cercare stimoli diversi, e quindi a esplorare, scoprire e inventare. Guidandoci a perseguire nuovi obiettivi quando la nostra condizione ci appare inadeguata o insoddisfacente la noia ha, dunque, una funzione adattativa.

Tuttavia adesso, per rendere più soddisfacente la nostra condizione attuale, dobbiamo fare qualcosa di controintuitivo e del tutto innaturale: starcene fermi e chiusi tra quattro mura. Per questo la mente che fatica a trovare nuovi stimoli su cui concentrarsi comincia a vagare.

“Una mente che vaga è una mente infelice” titola un articolo scritto da Killingsworth e Gilbert, dell’università di Harvard, a partire da un’indagine svolta su un enorme campione di persone di molti paesi e di ogni età. Vagare con la mente ha un costo emozionale. E, perfino se la mente vaga attorno a idee piacevoli, le persone si sentono mediamente più infelici che non quando sono assorte in un compito.

In sintesi: per riuscire a sopportare il fatto di restarcene in casa, dobbiamo industriarci per tenere la nostra mente occupata. Ma non “occupata e basta”: occupata sì, ma nel modo più adatto a noi e più efficace.

Calibrare semplicità e complessità
A raccontarci tutto questo, e molto altro, è un brillante articolo di Erin Westgate, che ci offre alcuni suggerimenti tutto sommato semplici.

Il primo è calibrare la semplicità o la complessità del compito sulle risorse cognitive di cui disponiamo nel singolo momento. Dovremmo, cioè impegnare la mente in un’attività che è sufficientemente sfidante, e che però siamo in grado di svolgere in modo soddisfacente. In altre parole: dobbiamo evitare sia la noia dei compiti troppo facili, sia la frustrazione di quelli troppo difficili. Essere così autoindulgenti da dedicare un’intera giornata a Candy Crush può non rivelarsi una soluzione efficace. Ma anche essere così esigenti con se stessi da proporsi di dimostrare la congettura di Riemann non è una buona strategia.

Il secondo suggerimento è affrontare compiti di difficoltà crescente man mano che diventiamo più bravi a svolgerli, e che con la nostra bravura crescono sia la nostra motivazione, sia la nostra gratificazione. È il meccanismo su cui sono costruiti tutti i videogiochi, ma possiamo applicarlo a un’infinità di altri compiti, o aumentandone la complessità, o diminuendo i tempi per l’esecuzione.

Il terzo suggerimento è dare consapevolmente un senso valoriale a quello che stiamo facendo, e ricordarlo a noi stessi mentre lo stiamo facendo. A cosa serve? In cosa ci rende migliori, o migliora la situazione per noi o per gli altri?

Il quarto suggerimento è bilanciare, nella ricerca e selezione di attività da svolgere, il piacere e l’interesse. Delle attività solo piacevoli ci si stanca in fretta, mentre quelle interessanti, anche se ci chiedono un di più di sforzo, catturano la nostra attenzione più a lungo e ci gratificano di più.

In sostanza, Westgate ci invita a praticare l’appassionante esercizio della metacognizione. Si tratta di accorgerci di come pensiamo. Di ragionare sul modo in cui pensiamo. E di scegliere consapevolmente attività che corrispondano ai bisogni della nostra mente, che è inquieta e curiosa, e ci punisce con la noia quando la facciamo girare a vuoto.

Pensare a come pensiamo è una sfida impegnativa, ma in questo periodo abbiamo un sacco di tempo a disposizione. Oltretutto è un (interessante, e assai più piacevole) modo alternativo per cominciare a darsi una scossa.

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