15 settembre 2020 16:15

Avete mai sentito parlare dell’effetto-spettatore? Se la risposta è no, dovreste leggere questo articolo. Dico sul serio.

Ecco di che si tratta. Siamo nel 1964, e due psicologi sociali, John Darley della New York University e Bibb Latané della Columbia University, restano molto colpiti da un terribile fatto di cronaca nera: Catherine Susan Genovese, detta Kitty, viene accoltellata a morte e stuprata nel distretto del Queens, a New York.

Lei gestisce un bar e rientra, come sempre, molto tardi. Parcheggia a trenta metri da casa. Ad aggredirla è un ventinovenne incensurato di Manhattan che, catturato pochi giorni dopo mentre sta compiendo un furto, confesserà l’omicidio di altre due donne e ulteriori crimini. Dichiarerà inoltre che preferisce aggredire donne perché “è più facile”.

L’aggressione a Kitty Genovese si svolge in due riprese e dura nel complesso circa mezz’ora: all’inizio qualcuno dalla finestra grida “lascia stare quella donna!”, e l’omicida si allontana. Poi torna per finire la sua vittima. Genovese tenta di difendersi e chiede aiuto, ma l’unica telefonata che un vicino fa alla polizia non viene presa in considerazione. E comunque pochi si interrogano su quel che sta effettivamente succedendo: sono solo strane urla nella notte.

La nascita del 911
In seguito a questi eventi la polizia statunitense istituirà il numero unico 911 per le chiamate di emergenza.

Poco tempo dopo i fatti, il New York Times scrive un articolo intitolato: “I 38 che hanno visto l’assassinio non hanno chiamato la polizia”. L’articolo non è accurato e, come si capirà in seguito, sovrastima il numero dei testimoni. Tuttavia, mette in luce un problema reale, e scatena un ampio dibattito su “l’apatia e la disumanizzazione dei contesti urbani”.

Darley e Latané decidono di approfondire le dinamiche psicosociali che stanno alla radice del problema, e si impegnano in una serie di esperimenti di laboratorio. I risultati attestano uno dei più solidi e replicabili effetti tra quelli analizzati dalla psicologia sociale. È, appunto, l’effetto spettatore (bystander effect, oppure bystander apathy), descritto per la prima volta in un articolo uscito sul Journal of Personality and Social Psychology nel 1968.

L’effetto-spettatore consiste in questo: le persone sono tanto meno propense a intervenire per aiutare un soggetto in difficoltà quanto maggiore è il numero degli individui presenti. In altre parole: una persona in emergenza ha una probabilità di ricevere aiuto inversamente proporzionale alla quantità di persone che, essendo sul posto, potrebbero effettivamente prestare aiuto.

Di fatto, di fronte a una situazione di emergenza le persone si trovano in una condizione fortemente ambivalente. A segnalarlo sono due notissimi psicologi, Milgram e Hollander in un articolo su The Nation nel 1964, in risposta a quello uscito sul New York Times. Da una parte, scrivono Milgram e Hollander, la situazione può apparire poco chiara o ambigua agli astanti. Dall’altra, le persone si sentono tenute a intervenire. Dall’altra ancora, hanno paura delle possibili conseguenze del loro intervento.

È il comportamento del gruppo a determinare, rallentandola e indebolendola, la reazione dei singoli

In una condizione di questo tipo, come scrivono testualmente Darley e Latané, “la presenza di altri spettatori riduce i sentimenti individuali di responsabilità personale e fa decrescere la velocità della reazione”. Questi i numeri dell’esperimento: senza alcuna differenza tra uomini e donne, l’85 per cento dei soggetti interviene se si trova da solo di fronte all’emergenza. In presenza di più persone, invece, la percentuale di chi interviene crolla al 31 per cento.

I ricercatori aggiungono che la spiegazione del fenomeno risiede più nella reazione di ciascun individuo al comportamento degli altri presenti che nella sua personale indifferenza nei confronti della vittima.

Insomma: è il comportamento del gruppo a determinare, rallentandola e indebolendola, la reazione dei singoli. Questo succede proprio perché la responsabilità dell’intervento appare diffusa tra molti, e quindi è percepita come meno imperativa da ciascuno. Il fenomeno si accentua quando il comportamento degli altri presenti non può essere osservato direttamente, e quindi quando ciascuno può razionalizzare la sua inazione dicendosi che “qualcun altro starà di sicuro facendo qualcosa”.

È notevole il fatto che, in un ulteriore esperimento, Darley e Latané immettano del fumo, che potrebbe indicare un incendio in corso, nella stanza dove si trovano uno o più soggetti. Risultato: se le persone si trovano da sole nella stanza, nel 75 per cento dei casi escono subito e vanno ad avvertire dell’emergenza. Se si trovano in gruppo, qualcuno va ad avvertire solo nel 10 per cento dei casi.

Nei luoghi di lavoro possiamo avere pubblici episodi di molestie sessuali, di discriminazione o di mobbing

Che un effetto-spettatore esista, e sia attestato, ovviamente non costituisce una scusante per chi non presta aiuto. Capire i motivi, però, aiuta a contrastarlo, come affermano, a conclusione del loro articolo, Darley e Latané: “Le persone non sono necessariamente ‘non interventiste’ a causa della loro personalità” (indifferente o alienata). “Se le persone capiscono le pressioni situazionali che possono portarle a esitare e a non intervenire, possono superarle”.

Proprio per questo ve ne sto parlando.

Se volete approfondire, un’assai esauriente pagina di Wikipedia, in italiano, vi dà conto delle ricerche successive e vi presenta diversi altri casi di cronaca.

I like non salvano vite
Qui mi preme segnalare che l’effetto-spettatore può scattare nei posti e nei contesti più diversi, e in situazioni d’emergenza molto differenti. Nei luoghi di lavoro, per esempio, possiamo avere pubblici episodi di molestie sessuali, di discriminazione o di mobbing. A proposito di molestie sessuali: in un Ted Talk, Julia Shaw dell’University College of London riferisce che le vittime di molestie sessuali nel 93 per cento delle volte segnalano che il fatto avviene in presenza di altri.

A scuola, l’effetto-spettatore può riguardare episodi di bullismo. In ospedale, può verificarsi per eccesso di team medici coinvolti, nessuno dei quali poi si prende effettivamente in carico il paziente.

Segnalo un fatto ulteriore: i social media, che nei fatti rendono spettatori tutti noi, aggiungono all’effetto-spettatore due nuove e brutte dimensioni. La prima, terribile, riguarda l’indifferenza, o addirittura l’approvazione nei confronti di atti violenti condivisi su Facebook, Twitter, Instagram.

La seconda, meno spaventosa ma più sconfortante, riguarda il fatto che si tenda a scambiare un like attribuito a questa o a quella buona causa con un intervento concreto in favore di quella buona causa. Le cose non funzionano così, e a ricordarcelo è una tostissima campagna dell’Unicef svedese “I like non salvano vite”. Qui il commento dell’Atlantic.

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