17 giugno 2015 12:35

È noto che in Europa orientale si ha più paura della Russia che non nel resto dell’Unione europea, e l’ultimo sondaggio realizzato dal Pew research center in otto paesi della Nato (Polonia, Spagna, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Canada e Stati Uniti) lo dimostra chiaramente. Metà degli intervistati ritiene che la Russia sia la principale minaccia per i suoi vicini. Il 70 per cento è a favore del sostegno economico all’Ucraina, ma solo il 41 per cento approva la fornitura di armi. Il braccio di ferro e fuoco sgomenta.

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Il sondaggio mette in luce forti differenze, in particolare tra la Polonia e gli altri paesi. Ben sette polacchi su dieci affermano che la Russia costituisce la principale minaccia militare per i paesi vicini, contro il 49 per cento negli altri paesi. Il 49 per cento vorrebbe sanzioni economiche più dure rispetto al 25 per cento negli altri paesi. Metà degli intervistati polacchi fornirebbe armi a Kiev, mentre negli altri paesi sono solo il 40 per cento.

Paradossalmente, i polacchi si fidano poco anche degli Stati Uniti: solo il 49 per cento è convinto che se un paese della Nato fosse coinvolto in un conflitto, gli Stati Uniti userebbero la forza militare per difenderlo, come previsto dallo statuto dell’alleanza.

Eredità storiche

Gli intervistati negli altri sei paesi (esclusi gli statunitensi) sono molto più fiduciosi, dal 65 per cento in Francia al 68 per cento in Italia e al 72 per cento in Canada. Qui si coglie qualche elemento che può spiegare la vittoria dell’euroscettico nazionalista ultraconservatore Andrzej Duda alle ultime elezioni presidenziali in Polonia, ottenuta soprattutto grazie al voto delle regioni orientali, più povere e più vicine alla Russia.

Le divergenze tra i vari paesi riflettono abbastanza fedelmente le divergenze nelle posizioni dei loro leader sull’intensità delle sanzioni e sulle prospettive delle relazioni con la Russia.

Sono il distillato dell’eredità storica e politica, della posizione geografica, dell’estensione degli interessi commerciali e finanziari, del grado di dipendenza energetica da Gazprom, delle visioni geopolitiche.

Solo il 19 per cento dei tedeschi e il 22 per cento degli italiani, per esempio, sarebbero favorevoli alla fornitura di armi all’Ucraina. Statunitensi e canadesi avrebbero meno esitazioni, rispettivamente 46 per cento e 44 per cento: più si è lontani dal teatro militare, meno i preparativi di guerra fanno paura. A favore, invece, un polacco su due: il sostegno militare all’Ucraina è visto come garanzia della propria sicurezza nazionale. La maggioranza dei polacchi (e degli spagnoli) vorrebbe che l’Ucraina entrasse nella Nato e nell’Unione europea, prospettiva accarezzata da poco più di un terzo di italiani e tedeschi (e dal 62 per cento degli statunitensi). È uno scenario non attuale: ”Non corriamo”, ha dichiarato recentemente la cancelliera tedesca Angela Merkel.

Leggendo i risultati del sondaggio Pew si comprende meglio la difficoltà dell’Europa a mantenere una linea comune chiara e condivisa da tutti in questa difficilissima fase in cui “tintinnano le sciabole” (come ha detto il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg). Finora l’Unione europea è riuscita a non dividersi sulle sanzioni contro Mosca, e si appresta a prorogarle di altri sei mesi.

Ora è passato, anche se non formalmente codificato, il concetto che per l’Unione europea la Russia non è più un ‘partner strategico’

La necessità di contrastare la minaccia politica e militare russa e il puntuale tallonamento americano obbligano l’Unione a mantenere una posizione comune. Ma non è mai un percorso lineare, scontato in partenza. Tutte le discussioni sull’estensione delle sanzioni non sono mai state una passeggiata.

Ora è passato, anche se non formalmente codificato, il concetto che per l’Unione europea la Russia non è più un “partner strategico”, formula lanciata dieci anni fa che si fondava su una premessa: Europa e Russia hanno valori comuni e interessi condivisi. L’Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini, continua a ripetere che quella fase oggi si è chiusa, aggiungendo però sempre che è “nostro interesse avere un canale forte e aperto di dialogo costruttivo con la Russia”.

Tanto per dire delle diverse sensibilità: pubblicamente, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, ex premier polacco, invita alla “pazienza strategica” e allo stesso tempo accusa la Russia di “bullismo” per le sue “tattiche distruttive e aggressive”. Nelle riunioni riservate, però, è il più “falco” di tutti contro Mosca. La Polonia e i paesi baltici non stanno con le mani in mano.

Per molti governi europei è stata una doccia fredda la notizia pubblicata dal New York Times, secondo cui gli Stati Uniti potrebbero decidere di inviare armi pesanti nei paesi baltici e nei paesi dell’Europa orientale che fanno parte della Nato (Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Bulgaria, Lettonia, Lituania ed Estonia). Il piano prevederebbe, per la prima volta dalla fine della guerra fredda, l’invio di carri armati e armi pesanti e di più di cinquemila soldati. Polonia e Lituania hanno confermato che esistono discussioni in questo senso. Finora le istituzioni europee hanno taciuto.

Inevitabilmente intrecciati

I destini della Russia e dell’Unione europea sono inevitabilmente intrecciati, ma come lo saranno è tutto da vedere. Finora la realpolitik europea ha resistito: Germania, Italia e Francia sostengono che con Putin occorre fermezza, ma allo stesso tempo bisogna evitare di isolare completamente la Russia. Merkel e Hollande svolgono il ruolo di principali mediatori europei (nel “formato Normandia” di cui fanno parte appunto Francia, Germania, Russia e Ucraina) e allo stesso tempo scrivono con gli altri partner, quelli sì strategici, le posizioni comuni del G7, oggi particolarmente dure con Putin.

Che cosa sostituirà la partnership strategica non si sa: si va da visioni all’insegna della confrontation strategica, speculare alla concorrenza “distruttiva” di Putin, a visioni più aperte e meno rischiose che implichino canali aperti di cooperazione stabile, obbligata dati i vincoli dell’interdipendenza (basti pensare all’energia), la cui intensità sarà sempre più contrattata. Una situazione nella quale il business europeo si trova malissimo.

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