11 luglio 2022 13:16

Il 24 febbraio, quando Vladimir Putin ha annunciato la sua “operazione militare speciale”, mi trovavo lontanissimo dall’Ucraina, mentre il mio paese, l’Estonia, celebrava i suoi 104 anni d’indipendenza. Intanto io tenevo un corso di storia sui movimenti apocalittici a Los Angeles, a diecimila chilometri dall’Ucraina. La distanza da Tallin a Kiev è esattamente dieci volte di meno.

Novemila chilometri possono fare un’enorme differenza. Un amico mi ha detto di non riuscire a dormire, perché continuava a cercare sul suo telefonino le ultime notizie dal fronte. Un altro stava accumulando beni in scatola e combustibile per generatori. Alcuni miei parenti, una coppia con due bambini piccoli, discutevano del paese dove emigrare, se l’invasione si fosse spinta fino a loro. “Non credo davvero che Putin c’invaderà. Ma che male può esserci nel farsi trovare preparati?”: è così che la maggior parte delle persone esprimeva i suoi sentimenti all’epoca. Mi sono sorpreso a seguire una logica simile. Certo, stavano reagendo in maniera eccessiva. Ma, di nuovo, è quello che dicevano tutti anche prima del 24 febbraio.

A Los Angeles era – sfortunatamente – più facile fingere che in Ucraina non stesse succedendo niente. Poche persone avevano dei legami personali con la regione, e i notiziari sulla guerra sono stati presto oscurati dalle discussioni sull’aumento dei prezzi del gas o sulla svolta a destra della corte suprema.

Dal panico alla solidarietà
Intanto i tentativi di trovare un senso alla crisi venivano azzerati da affermazioni secondo cui la guerra era un prodotto dell’invadenza della Nato e quindi, in ultima istanza, come tutto il resto in questo paese così narcisistico, degli Stati Uniti. Occasionalmente qualcuno mi ricordava che Los Angeles non era, dopotutto, un mondo a parte. Una studente mi ha detto che c’era un designer ucraino nell’azienda di videogiochi indipendente per cui lavorava. Quel designer ultimamente non aveva rispettato varie scadenze, visto che lavorava da Kharkiv e continuava a essere interrotto dai segnali di attacchi aerei.

Quando sono tornato in Estonia all’inizio di maggio la guerra era diventata parte della vita quotidiana di quasi tutte le persone che conoscevo. Al panico iniziale a proposito di una possibile invasione russa dei paesi baltici era subentrata una più sobria spinta a sostenere l’Ucraina nel proprio paese e all’estero.

La guerra ha riportato in superficie tensioni che molti credevano sepolte da tempo

Finora l’Estonia ha ricevuto più di quarantamila rifugiati, un numero simile a quelli accolti nel Regno Unito, che ha una popolazione più di cinquanta volte maggiore di quella estone: un tasso di oltre trecento rifugiati per ogni diecimila abitanti. Il centro culturale di fronte a casa mia era diventato un centro di volontariato, dove le persone raccoglievano e smistavano le donazioni. Un mio amico inviava email nelle quali chiedeva aiuto per far arrivare carburante ai rifugiati che stava ospitando in un appartamento che aveva a disposizione. Un altro organizzava la consegna di strumentazioni mediche al fronte. E tutti continuavano a perdere il sonno leggendo le notizie dal cellulare.

Politicamente la guerra ha riportato in superficie tensioni che molti credevano sepolte da tempo e ne ha portate in evidenza molte altre. Un politico conservatore, che si era costantemente battuto contro i piani di redistribuzione dei rifugiati siriani durante la crisi di alcuni anni fa, proclamava che gli stati d’Europa orientale, da soli, non avrebbero sicuramente potuto sostenere l’arrivo di profughi, e faceva appello per una maggiore solidarietà da parte dei membri occidentali dell’Unione europea.

Razzismo condiviso
La cosa mi ha ricordato la vecchia definizione del termine chutzpah data da Leo Rosen: “La qualità intrinseca di un uomo che, avendo ucciso suo padre e sua madre, chiede pietà al tribunale perché orfano”. Dopo un breve e inusuale periodo di silenzio, il Partito popolare conservatore estone, una formazione di estrema destra, ha tentato di riproporre la solita solfa degli “immigrati che ci rubano i posti di lavoro”, che però sembra finora caduta nel vuoto. Forse non è poi così sorprendente.

Improvvisamente i mezzi d’informazione tradizionali estoni sembrano aver perso ogni interesse nel generare panico morale chiedendosi come mai i rifugiati che arrivano in Estonia abbiano telefoni così costosi (in realtà comunissimi smartphone), se possano o meno essere portatori di malattie esotiche, o se i loro valori siano compatibili con la cultura estone.

La crisi ucraina ha reso evidente che l’isteria razzista sui rifugiati non si è mai limitata all’estrema destra ma è un fenomeno condiviso dai mezzi d’informazione tradizionali e dal centro politico. Recentemente, le organizzazioni di difesa dei diritti umani hanno protestato contro un progetto di legge che consentirebbe di espellere le persone al confine senza esaminare le loro richieste di asilo “durante un periodo di emergenza o di minaccia alla sicurezza nazionale”. Eero Janson, direttore del Consiglio estone per i rifugiati, ha definito la proposta di legge “indubbiamente una violazione della Convenzione sui rifugiati del 1951 e della Convenzione europea sui diritti umani, per non parlare del diritto dell’Unione europea”. La guerra in Ucraina ha cambiato la politica estone meno di quanto si potesse sperare.

I politici di tutti gli schieramenti hanno proposto di limitare i diritti della minoranza russa estone

La questione della minoranza russa in Estonia si è rivelata altrettanto tossica, dal punto di vista politico. Fin dai primi giorni di guerra la crisi ha fatto il gioco di quelle forze politiche – in gran parte di destra – che per anni hanno messo in guardia contro la minaccia dell’“orso russo”. Incoraggiate da questa rivendicazione, sono passate all’offensiva contro ogni sorta di nemico immaginario: una logica che non aiuta molto l’Ucraina a vincere la guerra, ma contribuisce a far guadagnare punti politici ai nazionalisti locali.

La questione, per esempio, sulla frequenza scolastica dei bambini ucraini – se debbano frequentare la scuola in estone o in russo – si è trasformata in una lotta sui tentativi pluridecennali di porre fine all’insegnamento della lingua russa.

La destra moderata insiste sul fatto che gli ucraini debbano frequentare la scuola in estone, mentre i funzionari locali sottolineano che senza l’aiuto di tutte le scuole, a prescindere dalla lingua di insegnamento, la presenza di bambini profughi finirebbe, di per sé, per sovraccaricare il sistema educativo. L’estrema destra ha accusato la coalizione di governo di aver architettato una cospirazione nella quale i rifugiati sono utilizzati per mantenere ed espandere le scuole russe. Nessuno sembra preoccuparsi di ciò che gli ucraini stessi preferiscano.

I politici di tutti gli schieramenti hanno proposto di limitare i diritti della minoranza russa in vari modi, dalla limitazione del diritto di possedere armi da fuoco alla revoca del diritto di voto alle elezioni locali per i cittadini russi residenti permanentemente in Estonia. Il fatto che i monumenti dell’era sovietica debbano essere abbattuti è considerato ormai un fatto assodato. A maggio due delle principali università estoni hanno deciso di rifiutare l’ammissione ai cittadini russi e bielorussi per il prossimo anno accademico. Il rettore dell’università di Tallinn, la terza più grande dell’Estonia, ha scritto un articolo appassionato per difendere il diritto all’istruzione a prescindere dalla nazionalità, ma è stato messo in minoranza dal senato accademico.

Un amico mi ha rimproverato per aver retwittato un articolo di un politico russo-estone che accusava il governo estone di aver trascurato a lungo l’istruzione, i mezzi d’informazione e la cultura russa. “Non c’è da stupirsi che molti russi in Estonia non abbiano condannato l’aggressione di Putin! Non c’è da stupirsi che credano ai suoi discorsi sulla ‘denazificazione’”, ha esclamato l’autore. Si tratta, a detta di tutti, di un’osservazione giusta. Il mio amico – riuscivo a immaginarlo mentre la sua faccia diventava rossa – pensava che così facendo si sviasse l’attenzione dalle vere cause. “I russi non hanno alcun potere in questa faccenda?”, mi ha chiesto. “Quando smetteremo di parlare dell’incapacità dello stato di fare questo o quello, e diremo semplicemente: svegliatevi cazzo, guardate cosa sta succedendo e smettete di ripetere le stronzate di Putin?”. La verità è che anch’io capivo a cosa si riferisse.

A quattro mesi dall’inizio di questa maledetta guerra, Tallinn somiglia molto alla Los Angeles di febbraio. La gente parla dell’inflazione, della caduta della coalizione di governo, dell’imminente ondata di calore e dei piani per le vacanze, che procedono come sempre. Le notizie da Sievierodonetsk sono ancora in prima pagina, naturalmente. Dopotutto non si tratta di un altro continente. Il consiglio per i rifugiati si lamenta del fatto che il governo non collabori con le ong e lasci i rifugiati appena arrivati senza assistenza nella città di confine di Narva. E l’emittente nazionale lancia l’ennesimo appello per consegnare i monumenti dell’era sovietica alla “pattumiera della storia”. A migliaia di chilometri dal fronte, nei primi giorni d’estate, è abbastanza facile fingere che tutto sia uguale a prima. Ma in realtà non è così. È peggio. È sempre un po’ peggio.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con Voxeurop. Fa parte della serie La guerra alle porte.

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