14 ottobre 2016 10:45

Ho incontrato Dario Fo per la prima volta 16 anni fa.

Stavamo al teatro Franco Parenti. Io facevo uno spettacolo e lui è venuto a vederlo. Ero giovane e non pensavo che un signore e scrittore e intellettuale così importante potesse uscire di casa per vedere un ragazzetto che veniva a Milano per un solo giorno, un lunedì, a mostrare uno dei suoi primi spettacoli. E invece lui ci stava. Lui e la sua compagna. Quella che l’ha accompagnato per un pezzo lungo e importante della sua vita.

Poi l’ho rivisto altre volte. In teatro, ma anche a casa sua.

“La maschera è importantissima, ma se la tieni troppo sulla faccia, quando la togli finisci per toglierti anche la faccia!”, mi dice seduto sul divano a un primo o secondo o terzo piano (non mi ricordo) a Porta Romana durante un primo pomeriggio di qualche anno dopo. E poi ha continuato con tante altre storie. Me le ha cantate. Io non ci ho creduto perché è stato proprio lui a dirmi che l’artista studia, ma poi inventa pure. E allora le cose che mi ha raccontato non so se sono più belle perché le ha salvate dall’oblio della storia o se le ha inventate lui. Canti e racconti mezzi inventati e mezzi salvati dal naufragio. E tutte le volte che rileggo e risento le sue descrizioni dell’attore che usa la maschera nella cosiddetta commedia dell’arte mi ricordo che pure lui è un attore, che pure lui sta fingendo, che pure lui ha una maschera sulla faccia e cerca di togliersela senza togliere la faccia.

Mi dice che “lo studioso russo Georgij Valentinovič Plechanov ha scoperto per esempio che il movimento dei barcaioli, che remano nella laguna di Venezia spingendosi col palo, produce un canto in settenari che è funzionale a dare il tempo ai compagni di lavoro. Il canto popolare, cioè, è nato per accompagnare e coordinare le attività umane necessarie al lavoro collettivo, perché nel danzare, nel recitare o nel cantare, gli uomini primitivi rappresentavano col gesto stilizzato il gesto del loro lavoro”.

E mentre mi racconta dello studioso russo rivoluzionario muove le braccia come un barcaiolo, alza e abbassa la voce, si mette in piedi e interpreta il gondoliere. “Anche i canti dei vogatori in Sicilia, per esempio, hanno una metrica funzionale al lavoro: in questo caso cambia il modo di remare rispetto ai veneziani, perché i siciliani usano barche alte di sponda perché si trovano sul mare, e non sull’acqua calma della laguna, e quindi devono sfondare il vento e le onde”, e accenna un ipotetico canto da barcaiolo siciliano.

Franca si affaccia ogni tanto. Lo accompagna con la voce “tutto a posto?”, dice. Una ragazza giovane gli porta qualcosa da bere. Non mi ricordo se un tè o un caffè. Qualcuno che entra in casa lo chiama maestro, ma lui annuisce senza pensarlo troppo seriamente. Dario Fo chiacchiera, mette tutte le parole insieme, le mescola, sembra che non escano dalla sua bocca, ma dal novecento sghembo che abbiamo appena abbandonato. Il novecento che un altro poeta ha chiamato “piano-sequenza infinito”, il luogo nel quale si attua la rapida sintesi che trasforma un essere vivente in un ricordo.

E io me lo ricordo così, Dario Fo: una voce che mescola la faccia alla maschera. “Se la tieni troppo sulla faccia, quando la togli finisci per toglierti anche la faccia!”, diceva, ma la maschera non se l’è tolta mai. O non se l’è mai messa. E forse questo è proprio l’Antiparadosso dell’attore, così voleva intitolare il suo Manuale minimo dell’attore, per mettersi in “polemica aperta con Diderot”, ma “amici davvero affettuosi mi hanno fatto notare che nessuno si sarebbe accorto della polemica”. Dario Fo è stato un attore del novecento. Ha indossato una maschera che riproduceva perfettamente la sua faccia. Una maschera per dire che le maschere non esistono. Nel suo piano-sequenza infinito ha messo un’anti-maschera straordinaria. L’ha fatto per non togliersi la faccia da quel pezzo di corpo dove gli occhi si muovono a destra e sinistra, dove la bocca parla.

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