Da Nasser a Mubarak, passando per Sadat, tutti i presidenti egiziani provenivano dai ranghi dell’esercito. Anche dopo la rivoluzione del 2011 è stato il Consiglio supremo delle forze armate ad assumere il potere ad interim fino alle presidenziali del 2012, poi vinte da Mohamed Morsi. Oggi il presidente islamista è l’obiettivo principale di una protesta senza precedenti, e ancora una volta tocca all’esercito prendere in mano la situazione, dopo appena dodici mesi di esilio.
Lunedì pomeriggio il generale Abdel Fatah al Sisi, ministro della difesa, ha letto in televisione l’ultimatum dei militari. L’esercito concede esattamente 48 ore ai partiti per trovare una soluzione alla crisi, e “se le rivendicazioni del popolo non saranno soddisfatte” le forze armate pubblicheranno “una roadmap la cui attuazione sarà controllata direttamente”. Dal punto di vista formale è un invito rivolto a tutta la classe politica, ma “le rivendicazioni del popolo” si riassumono sostanzialmente nelle dimissioni di Mohamed Morsi, e dunque il destinatario principale dell’ultimatum è il presidente.
Ecco spiegate le esplosioni di gioia in piazza Tahrir e la soddisfazione espressa da numerosi esponenti dell’opposizione. Ma cosa vuole esattamente l’esercito?
Molto popolare per aver rifiutato di sparare sui manifestanti nel 2011, immensamente ricco e padrone del proprio budget (di cui decide persino l’ammontare), l’esercito egiziano conserva un pessimo ricordo del periodo in cui ha esercitato direttamente il potere. La gestione economica e politica del paese non è nelle sue corde, e all’epoca i militari sono stati criticati duramente un po’ da tutti. Oggi lo stato delle finanze è talmente catastrofico e la rabbia sociale così forte che le forze armate avrebbero tutto da perdere a prendere in mano le redini del paese.
Naturalmente non possiamo escludere che il generale Sisi, 58 anni, nominato da Morsi per tenere lontani i generali dell’epoca di Mubarak, si sia scoperto novello Bonaparte (figura molto popolare in Egitto). Il generale potrebbe proporsi come salvatore della patria ma, smentite a parte, questo scenario è poco probabile. Allo stato attuale la teoria più plausibile è che Sisi voglia soltanto tirare fuori l’Egitto dall’impasse, imporre un compromesso per evitare il caos e accrescere la popolarità dell’esercito prendendo le parti dei manifestanti. In questo caso la roadmap porterebbe a nuove elezioni, che lascerebbero il potere in mano ai civili pur mantenendo il ruolo dell’esercito come garante dell’ordine e della stabilità.
Tutto considerato non sarebbe la soluzione peggiore, ma il problema è che gli oppositori, uniti contro gli islamisti, sono profondamente divisi sulle politiche da attuare. L’allontanamento del presidente, che stanotte
ha respinto l’ultimatum, riporterebbe la calma a breve termine, ma il problema di fondo resterebbe, perché l’Egitto è in rivoluzione da 29 mesi e per definizione le rivoluzioni sono lunghe, incerte e caotiche.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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