15 maggio 2015 09:09

Quando sentiamo nominare il Burundi vengono in mente i tutsi e gli hutu. Come accade nel vicino Ruanda, infatti, queste due etnie formano la popolazione del paese, dove è appena fallito un colpo di stato preceduto da due settimane di imponenti manifestazioni nella capitale Bujumbura.

L’associazione di pensiero è tanto più giustificata se consideriamo che la storia del Burundi, fin dall’indipendenza del 1962, è stata segnata da uno scontro permanente e sanguinoso tra i tutsi (che rappresentano il 15 per cento della popolazione) e gli hutu (85 per cento). Tuttavia, almeno per il momento, la separazione etnica non è alla base dei problemi del paese.

La tensione in Burundi nasce infatti dalla volontà del presidente Pierre Nkurunziza di provare a ottenere un terzo mandato alle elezioni del prossimo 26 giugno approfittando di un’ambiguità della costituzione, secondo la quale il capo di stato può essere eletto a suffragio universale per un massimo di due mandati consecutivi. Ad affidare il primo incarico a Nkurunziza è stato però il parlamento, dunque il presidente in carica sostiene di avere il diritto di presentarsi alle elezioni. Tuttavia, questa violazione palese dello spirito della costituzione non piace a tutto il partito di Nkurunziza (attualmente spaccato sulla questione) né tanto meno alla popolazione, che lo accusa di aspirare alla presidenza a vita e di voler installare il suo clan al vertice dello stato.

Il malcontento è giustificato anche dal fatto che il Burundi è da poco uscito da un decennio di guerra civile a cui hanno messo fine gli accordi di Arusha e l’adozione, cinque anni più tardi (2005), di una costituzione che garantisce una rappresentanza alla minoranza tutsi nelle più alte cariche pubbliche e soprattutto nell’esercito. In questo modo il Burundi si è stabilizzato e ha voltato pagina superando sostanzialmente il conflitto etnico.

Il paese si è normalizzato e ha ricominciato a sperare, ed è per questo che le manifestazioni di Bujumbura non hanno incarnato uno scontro tra tutsi e hutu quanto piuttosto la ribellione di tutte le classi sociali (sia tutsi sia hutu) che vogliono difendere quello stato di diritto in nome del quale il generale Nyombare, fino a poco tempo fa molto vicino a Nkurunziza, ha messo in atto il suo colpo di stato, acclamato dai manifestanti che pregustavano la vittoria.

In questo senso gli ultimi eventi posso essere letti non come un tragico ritorno indietro, ma come un’affermazione della società civile, della sua aspirazione alla democrazia e del sostegno dell’esercito allo stato di diritto. Dopo il Niger nel 2010 e il Burkina Faso lo scorso inverno, è la terza volta che in Africa la volontà di un presidente di restare illegittimamente al potere si scontra con la resistenza della popolazione e di una parte dell’esercito. In Burundi, però, questa resistenza è stata finora vana.

L’esercito è infatti diviso tra golpisti democratici, partigiani del presidente e nemici di ogni forma di legalità, come il capo di stato maggiore. Il timore di una deriva verso la guerra civile è tale che i paesi africani e occidentali hanno condannato energicamente il colpo di stato tanto quanto il tentativo di manipolare la costituzione da parte del presidente eletto. Passo dopo passo, però, la democrazia sta avanzando in Africa, anche se molti paesi (Burundi compreso) sono ancora in piena fase di transizione.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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