C’erano pochi dubbi sul fatto che il 2025 sarebbe stato un pessimo anno per la democrazia. Alla fine si è rivelato molto peggio di quanto molti di noi si aspettassero. Non solo Donald Trump è tornato alla riscossa, ma le classi dirigenti internazionali e quella statunitense hanno per lo più preferito la via dell’accondiscendenza a quella dello scontro, finora con scarsi risultati.

Il nuovo anno continuerà a tenere alta l’attenzione sugli Stati Uniti, sia per i mondiali di calcio di giugno e luglio (che riguarderanno anche Canada e Messico, per lo più emarginati, peroò, in questo “campionato Maga” da Trump e dal presidente della Fifa Gianni Infantino) sia per le cruciali elezioni di metà mandato di novembre. I risultati di questa tornata elettorale avranno implicazioni politiche ben oltre gli Stati Uniti, Europa compresa, come ha reso abbondantemente chiaro la Strategia di sicurezza nazionale del 2025, pubblicata di recente.

Anche se in molti ormai riferendosi agli Stati Uniti di Trump parlano di un paese “autoritario” o addirittura “fascista”, la situazione è ancora complessa e in evoluzione. Lo si è visto per esempio nel fatto che le proteste del movimento No kings sono state tra le manifestazioni più imponenti della storia statunitense, eppure non hanno subìto repressione o violenza da parte delle autorità. Nonostante tutti i tentativi dell’amministrazione Trump, gli Stati Uniti sono ancora una democrazia liberale, imperfetta e in crisi, ma con un governo chiaramente autoritario.

Il consenso di Trump

Anche se le elezioni di metà mandato non potranno cambiare radicalmente questo stato di cose, potrebbero indebolire significativamente il potere dell’amministrazione e magari infondere un po’ di coraggio nel mondo accademico, economico, politico e dell’informazione.

Finora Trump ha governato principalmente usando gli ordini esecutivi, con l’aiuto della maggioranza repubblicana al congresso, che ha volontariamente rinunciato ai poteri garantiti dalla costituzione per paura di una minaccia diretta del presidente o della violenza dei suoi sostenitori. Se i democratici dovessero ottenere la maggioranza alla camera o al senato potrebbero ostacolare gli ordini esecutivi e rendere Trump un presidente molto più debole per il resto del suo mandato.

Soprattutto, la riconquista del congresso darebbe al Partito democratico una migliore opportunità per garantire che le elezioni del 2028 siano ancora sostanzialmente libere e regolari. E magari potrebbe mandare un messaggio chiaro alle varie élite, facendo loro capire che Trump non è la voce del popolo e che è possibile opporsi e resistergli con successo.

Naturalmente dovrebbero già saperlo, perché i sondaggi sempre più spesso stanno rivelando che Trump e le sue politiche sono estremamente impopolari negli Stati Uniti (e altrove). Da alcuni mesi il gradimento del presidente è disastroso, attestandosi al 36 per cento, anche se il dato non è diminuito molto tra gli elettori repubblicani (dal 91 per cento del gennaio 2025 all’84 per cento dello scorso novembre).

La legge di Donald Trump
Il presidente statunitense ha mandato l’esercito a Los Angeles per reprimere le proteste contro le retate di immigrati irregolari. Alimentando le tensioni e mostrando di voler impedire il dissenso a ogni costo

Anche i suoi ordini esecutivi, tanti da non avere precedenti, sono per lo più impopolari, e solo appena più apprezzati dai repubblicani. Sorprendentemente, anche il tema di punta delle sue politiche, l’immigrazione, ha un indice di gradimento basso. Particolarmente importante per le elezioni di metà mandato è il fatto che il consenso di Trump sulla gestione dell’economia ultimamente è sceso ai minimi storici.

Quest’impopolarità è stata chiara in tutte le elezioni locali che si sono tenute negli Stati Uniti quest’anno. Nonostante il Partito democratico (fatto sconcertante) sia ancora meno apprezzato di quello repubblicano, i suoi candidati hanno ottenuto ottimi risultati nella più importante giornata elettorale del 2025, il 4 novembre, con vittorie di alto profilo in New Jersey, a New York e in Virginia, tra le altre.

Queste vittorie non si limitano alle aree più progressiste del paese. All’inizio di dicembre un democratico ha vinto un seggio in Georgia, in una circoscrizione appositamente disegnata per blindare il risultato a favore dei repubblicani. È stato il venticinquesimo seggio conquistato dai democratici a livello nazionale. Inoltre, nelle 64 elezioni statali che si sono tenute quest’anno in media i candidati democratici hanno riguadagnato un 13 per cento di voti rispetto alle presidenziali del 2024.

Le sfide dell’Europa

Chiaramente le elezioni di metà mandato sono cruciali per la democrazia statunitense (probabilmente stabiliranno se il paese rimarrà democratico nel prossimo futuro), ma le ripercussioni si avvertiranno in tutto il mondo, a cominciare dall’Europa. La strategia di sicurezza nazionale statunitense del 2025, nella parte sull’Europa contiene un attacco frontale all’Unione europea, alla democrazia liberale e al multiculturalismo del continente.

Intrisa di ideologia di estrema destra e teorie del complotto (come la cosiddetta grande sostituzione), l’amministrazione Trump si pone l’obiettivo di “promuovere la grandezza europea… coltivando la resistenza all’attuale traiettoria dell’Europa all’interno delle nazioni europee” e di “consolidare le robuste nazioni [sic] dell’Europa centrale, orientale e meridionale”. Considerato che il documento afferma che “la crescente influenza dei partiti patriottici europei è in effetti motivo di grande ottimismo”, non c’è dubbio su quali siano le forze che l’amministrazione Trump considera sue alleate in Europa.

Il primo e più grande test di questa nuova politica estera interventista degli Stati Uniti saranno le elezioni parlamentari ungheresi del 12 aprile. Per la prima volta da quando ha riconquistato il potere e trasformato il paese in un regime autoritario, Viktor Orbán si trova ad affrontare una reale sfida alla sua autorità. Tisza, il nuovo partito del parlamentare europeo Péter Magyar, prima in Fidesz, ha un vantaggio a due cifre nei sondaggi e questo rende palesemente molto nervoso Orbán. La sua ampia rete propagandistica sta conducendo un’elaborata campagna denigratoria, mentre il suo governo ha chiesto (senza successo) al parlamento europeo di revocare l’immunità parlamentare di Magyar.

La cultura che resiste al regime di Orbán
Negli ultimi quindici anni i nazional-conservatori di Fidesz hanno preso il controllo della vita culturale ungherese. Ma le cose stanno cambiando

Indubbiamente Trump vuole che Orbán rimanga al potere. Anzi, in una bozza della strategia di sicurezza nazionale fatta trapelare alla stampa si cita esplicitamente l’Ungheria come uno dei quattro paesi con cui “lavorare di più… con l’obiettivo di allontanarli” dall’Unione europea (gli altri tre sono Austria, Italia e Polonia). Anche se il documento rimane vago sul modo in cui gli Stati Uniti puntano a raggiungere questo obiettivo, possiamo aspettarci come minimo un certo grado d’interferenza di Washington nelle elezioni ungheresi, magari con un sostegno finanziario come quello offerto a Javier Milei in Argentina. Inoltre, dovremo aspettarci interferenze russe a favore di Orbán, la voce più fedele al Cremlino all’interno dell’Unione, probabilmente per mezzo di campagne di disinformazione online. Magyar ha già accusato la Russia d’interferenze, un timore diffuso tra la maggioranza degli ungheresi.

Come risponderà questa volta l’Unione europea? Nell’ultimo decennio si è limitata a riconoscere che in Ungheria le elezioni sono state “libere ma non regolari”, dicendo però di non essere in grado di fare qualcosa. Alle precedenti elezioni Orbán ha giocato su un terreno impari. Le cose potrebbero cambiare ora che Magyar minaccia la cleptocrazia del primo ministro ungherese e dei suoi collaboratori (compresa la sua famiglia). Alcune voci sembrano indicare che Orbán voglia approdare alla presidenza, dopo aver trasformato il paese in un sistema presidenziale (come ha fatto Recep Tayyip Erdoğan in Turchia). Il governo ungherese ha negato queste voci, ma il parlamento ha già approvato una proposta di legge per “rafforzare” la presidenza, imponendo una maggioranza di due terzi (invece che una semplice) per destituire il presidente.

Ma anche se Orbán perdesse le elezioni e accettasse la sconfitta – due grossi “se” considerata la sua reazione alla sconfitta elettorale del 2002 – Fidesz continuerebbe ad avere un grande potere nel paese (molto di più del partito Legge e giustizia, Pis, in Polonia). Negli ultimi quindici anni Orbán ha nominato suoi fedelissimi in quasi tutte le istituzioni pubbliche, persone che spesso possono essere allontanate solo da una maggioranza qualificata. Inoltre, l’Unione europea ha diversi piccoli Orbán al potere in altri paesi, come il primo ministro slovacco Robert Fico, quello ceco Andrej Babiš e il presidente polacco Karol Nawrocki, tutti apertamente sostenuti da Orbán nelle loro campagne elettorali. Nessuno di loro è fermamente euroscettico o filorusso come Orbán, né ha la stessa forza sul piano interno, ma tutti continueranno a rallentare e indebolire importanti politiche comunitarie in politica estera (soprattutto su Russia e Ucraina), sui diritti delle minoranze e lo stato di diritto.

In questi tempi drammatici la “bolla di Bruxelles” torna sempre alla famosa affermazione di Jean Monnet secondo cui “l’Europa sarà forgiata nelle crisi”. Questo spiega perché i funzionari europei hanno sottovalutato Trump, mentre gli abitanti più fanatici del continente addirittura hanno sperato in una sua vittoria e altri ci hanno semplicemente visto un “risvolto positivo” per l’Europa. Ma in un anno in cui il segretario generale della Nato ha esplicitamente messo in guardia l’Europa su un attacco russo entro cinque anni e gli Stati Uniti da alleato chiave sono diventati un importante avversario, più che rafforzarsi l’Unione si è divisa. La presunta donna più potente del mondo, Ursula von der Leyen, è stata occupata a respingere le sfide di altri pesi massimi europei, ad affrontare scandali di corruzione e voti di sfiducia al parlamento europeo. Nell’arco di un anno è passata dall’essere la “Regina Ursula” a rappresentare il “volto della debolezza dell’Unione europea”.

In breve, nonostante quello che forse è il contesto internazionale più ostile da quando è nata, l’Europa non ha imparato “a reggersi sulle proprie gambe”. Anzi, per lo più ha temporeggiato e ha adulato Trump, un approccio portato all’estremo dal segretario generale della Nato, Mark Rutte, che con un’espressione tristemente nota ha chiamato Trump “paparino”, con grande piacere del presidente statunitense. Tuttavia, temporeggiare è una strategia inutile se non hai un piano per il futuro. Per lo più ritarda l’inevitabile, come stiamo vedendo purtroppo nel caso dell’Ucraina, sempre più alle prese con una proposta statunitense favorevole alla Russia che ignora ed estromette completamente l’Europa.

Forse a questo punto vi aspetterete un finale ottimistico. La tesi per cui l’Europa ha finalmente imparato la lezione e ribalterà completamente la situazione. Purtroppo non vedo segnali di una svolta in questo senso. Tralasciando il fatto che ci sono tutt’al più prove empiriche contrastanti riguardo alla tesi di Monnet secondo cui l’Europa dà il meglio di sé in tempo di crisi, il continente è più diviso e isolato che mai. Non solo l’estrema destra è una forza importante nella maggior parte dei paesi europei e a tutti i livelli dell’Unione, ma il Partito popolare europeo (Ppe) si schiera spesso dalla sua parte al parlamento europeo o usa la minaccia della collaborazione per trascinare verso destra i gruppi centristi.

Inoltre, i grandi paesi europei hanno tutti governi deboli, nella maggior parte dei casi preoccupati di sopravvivere agli scontri politici interni (come in Francia, Germania, Polonia e Regno Unito). Per giunta, l’Unione è alle prese con quello che è stato definito lo “scandalo della frode diplomatica”, che potrebbe causare la caduta di Von der Leyen e quindi catapultare il continente in una crisi.

Insomma, se il 2026 dovrà essere un anno migliore per la democrazia (europea), questa svolta dovrà arrivare dagli ungheresi e dagli statunitensi, che hanno la possibilità di infliggere un duro colpo ai propri leader antidemocratici. Forse allora i leader europei e statunitensi potranno finalmente e realmente unirsi nella battaglia contro l’estrema destra, non solo a parole ma anche nei fatti.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

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