25 novembre 2014 11:12

In un paese come l’Italia che definisce le sue identità attraverso il calcio molto più che con le classi sociali, la provenienza geografica, la fede religiosa o le preferenze sessuali, quando mi chiedono per che squadra tifo rispondo, usando un tono che può essere scambiato per snobismo o malinconia, che sono un ex juventino.

Lo sono diventato senza deciderlo consapevolmente, nei lunghi anni tra il liceo e l’università; ma non è successo distrattamente come magari succede a chi da adolescente arrabbiato con il mondo smette di andare a messa una domenica e poi, con indolenza, non frequenta più un altare in vita sua. Con il tifo non esiste questo tipo di processo, una lenta e graduale secolarizzazione. Anzi.

Ho smesso di tifare per la Juventus – e non ho ovviamente cominciato a tifare nessun’altra squadra (cambiare squadra, credo lo si capisca verso gli otto anni, è una possibilità realmente inaccessibile) – per tre motivi fondamentali che sono rimasti immutati nel tempo; li potrei ripetere domani in fila alla posta o in una discussione improvvisata sull’autobus.

Sono gli stessi tre motivi che mi venivano in testa, mentre leggevo le parole dell’attuale presidente della Juventus, Andrea Agnelli, a un convegno organizzato da Rivista Studio: “Moggi? Rappresenta una parte importante della nostra storia. Lo possiamo perdonare. Siamo il paese del cattolicesimo”.

Non so se sia vero che siamo il paese del cattolicesimo, ma so che il perdono cristiano non vuol dire la cancellazione delle responsabilità. Nulla in contrario a non sottoporre più alla gogna Luciano Moggi, ma molto in contrario a riabilitare il suo operato – per così dire – sportivo. Le responsabilità di Moggi sono giuridicamente e storicamente rilevanti, anche perché lui stesso non ha mai fatto ammenda seriamente (oggi non si può dire che sia colpito da damnatio memoriae, ma collabora a Libero, Tempi, Diretta Stadio, vari programmi radio) e ad Andrea Agnelli ha risposto: dovrei essere omaggiato, non perdonato.

Le partite truccate, questo credo sia il primo motivo: non si tratta solo dell’idea che un fatto personale, diventato un sistema corrotto, para-mafioso, possa essere in qualche modo scambiato per un peccato veniale. È una delusione di tipo diverso: pensare che mentre guardi la partita stai assistendo a un gioco truccato. Non mi diverto.

Il secondo motivo è il doping. Anni fa curai un libro che si chiamava Buon sangue non mente scritto dall’ematologo che aveva scritto la perizia nel processo del 2004, Giuseppe D’Onofrio. Leggerlo in bozze era come leggere una per una le migliaia di email che la tua fidanzata si è scambiata con un amante: sospeso tra la voglia di indagare il fondo e il desiderio di mantenere una traccia di credulità.

In questo caso la prova del tradimento erano i valori dell’emoglobina che in pochi giorni erano aumentati del 15 o del 20 per cento. A rileggerlo oggi, quel libro o altri racconti della cosiddetta “farmacia Juventus”, al di là delle polemiche spicce da bar dello sport mostrano che ci fosse non solo una pratica ma una cultura del doping, un’attitudine al mascheramento, alla falsificazione, all’autogiustificazione – il contrario del concetto stesso di sportività che altro non è poi che una forma semplice di laicità.

Il terzo motivo è in questo video.

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È la scena che vedo alla tv il 29 maggio del 1985. Ho seguito tutte le partite di Coppa ogni mercoledì da quattro anni e potrei citare a memoria ogni azione. So l’altezza, il peso forma, formazioni e tabelline (presenze, gol) di ciascuno dei tesserati della Juve. Leggerò la biografia di Platini, La mia vita come una partita di calcio, quando a scuola ci chiederanno di scegliere un libro a piacere, vedrò – uno dei pochi in Italia – il film di Stefano Tacconi, Ho parato la luna. Insomma sono uno juventino totale, una creatura anche mal vista in una famiglia che di calcio non si interessa; eppure mio padre mi fa accendere la televisione più di un’ora prima, permettendomi di cenare sul divano.

Poi, quando la scena si fa atroce, mi manda a letto. La mattina dopo, quando mi sveglio, la prima cosa che chiedo a mio padre è come è andata la partita, che ha fatto la Juve, e lui mi risponde che ha vinto uno a zero. Io esulto: la vittoria in Coppa dei campioni che sto aspettando da quando ho cominciato a tifare. Poi mi dice dei trentanove morti. E quello è il momento, mentre sono ancora a letto, in cui comincio a smettere di tifare Juve.

Andrea Agnelli, che è più o meno un mio coetaneo, qualche anno fa, in una commemorazione per il venticinquennale dell’Heysel, raccontò ricordi simili. E disse: “È una coppa che facciamo fatica a sentire nostra”.

Ecco, magari restituirla aiuterebbe a far innamorare di nuovo non dico me, che ormai sono un quarantenne disincantato che giusto ogni tanto si concede un’ora su YouTube per guardare i gol di Platini, ma quel ragazzino che la mattina del 30 maggio ancora non si era alzato dal letto.

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