07 febbraio 2015 15:08

Il nome del figlio, il film di Francesca Archibugi uscito una decina di giorni fa al cinema, è il remake italiano di una commedia francese del 2012 (titolo originale Le prénom, titolo italiano Cena tra amici), scritta prima per il teatro e poi per il cinema da Matthieu Delaporte e Alexandre de La Patellière, che in Francia quando uscì fu vista da più di tre milioni di spettatori.

(Ok, da qui in giù spoilero).

Anche nella versione italiana ci sono cinque amici: un fratello e una sorella, Paolo e Betta Pontecorvo (Alessandro Gassman e Valeria Golino) con i rispettivi compagni, Simona (Micaela Ramazzotti) e Sandro (Luigi Lo Cascio), più un altro vecchio amico storicamente solitario, Claudio (Rocco Papaleo). Si ritrovano per una cena rituale in cui però le frecciatine finiscono per diventare prima commenti taglienti e poi offese feroci e confessioni drammatiche; il tutto scaturisce quasi per caso da uno scherzo che Paolo, prossimo padre, butta là: dice di voler chiamare il figlio Benito, provocando lo sdegno degli altri (“Ma è come Benito Cereno di Melville!”, “Tu sei un Pontecorvo, hai presente le leggi razziali!”).

È un modello classico: un ambiente ristretto e familiare, bonario e mite, diventa lo scenario per le peggiori recriminazioni. Vale per tutti i “grandi freddi”, per pièce classiche tipo Chi ha paura di Virginia Woolf di Edward Albee/Mike Nichols come per capolavori contemporanei come I segreti di Osage County di Tracy Letts/John Wells; per un buon numero di commedie italiane, tipo gli ultimi Monicelli, o Compagni di scuola di Verdone, o vari Pupi Avati.

Nel caso di Il nome del figlio, i confini della tragedia domestica sono quelli della commedia: nulla è veramente fatale e irreversibile, sappiamo già che ci sarà un lieto fine, il rito delle cene continuerà a ripetersi negli anni nonostante le parole pesantissime, definitive, che i protagonisti si sono rivolti.

Se il film francese era un congegno oliatissimo e abbastanza artefatto – tempi teatrali scanditi alla perfezione, un dramma da interno in cui la claustrofobia era direttamente proporzionale al crescere del ritmo rigoroso ma meccanico – la versione di Francesca Archibugi e Francesco Piccolo (lo sceneggiatore) allenta la tensione, inserendo un prologo (i titoli d’apertura intervallati da un’intervista di una Guia Soncini) e una serie di (otto) flashback che dovrebbero fare da controcanto ai botta e risposta dei cinque amici, e finendo con il confezionare un film ibrido, con cose che funzionano e che rendono il film più realistico del francese, e altre cose che invece proprio no, non funzionano.

I personaggi femminili sono l’elemento migliore del film, soprattutto quello di Simona Peruso (Ramazzotti), borgatara di Casal Palocco basso, che ha scritto – un po’ si è fatta scrivere – un romanzo che sta vendendo un sacco, Le notti di F. Nel film francese il personaggio della scrittrice non c’è e soprattutto non c’è nessun protagonista di una diversa estrazione sociale. Micaela Ramazzotti è bravissima invece a generare e mantenere vivo il conflitto tra classi.

Nell’universo radical chic – la casa della cena al Pigneto ristrutturata con il parquet, gli intellettuali un po’ bohémien ma attaccati ai loro piccoli rituali borghesi – Simona inserisce una violenza che non è semplicemente astratta e liturgica: è la violenza dell’autenticità, di chi non ha nulla da perdere.

Non solo le sue battute frantumano la compostezza e il sarcasmo degli altri quattro, ma anche i suoi sguardi sprezzanti, le sue pause sdegnose, e soprattutto il suo dolore confessato in un monologo finale in cui accusa gli altri di vivere di fatto in una bolla di relazioni ipocrite raggelano la pseudo-allegria creata dalle risatine isteriche, dalle musichette e i movimenti di macchina avvolgenti (Archibugi è talentuosa; fino a quando non fa Ozpetek con la macchina da presa che gira intorno alla tavola, o eccede in campi e controcampi tennistici).

Nell’escalation di Simona segue Betta, e sono i cinque minuti migliori di Valeria Golino: insegnante precaria, cinquantenne con la paura di invecchiare, noiosamente divisa tra l’amore per i figli e il marito e la trasgressione banale di un flirt con un collega, prova a rompere l’equilibrio borghese, rinfacciando a ognuno la falsa amicizia che le hanno ammanito per anni. Sbraita, liquida le esistenze in una frase.

Sguardi fissi, qualche secondo di paura.

A questo punto – quando manca una decina di minuti dai titoli di coda – sembra che qualcosa veramente possa rivelarsi in un film che invece di sorprendente non ha praticamente nulla: per più di un istante lo spettatore teme – spera forse – che il patto del lieto fine si rompa, che il massacro non sia solo annunciato.

La commedia borghese con le battute salaci potrebbe essere solo la rappresentazione di se stessa e implodere, quasi una critica del genere.

Purtroppo è solo un’illusione, in un istante ancora più breve tutto rientra nei canoni, nel prevedibile.

Il nome del figlio è un film piuttosto prevedibile. È probabile che questo accada anche per aver ricalcato buona parte della sceneggiatura su quella francese. Gli attori sono costretti a recitare personaggi che sembrano somigliare solo a degli stereotipi, addirittura tradotti, e non a degli esseri umani reali: fanno battute che dovrebbero far ridere e invece non molto (“E se il bambino resta piccolo?”, “Farà il fantino”), dichiarano quello che provano invece di mostrarlo, ribattono ai colpi altrui prima che l’altro abbia finito di assestarli.

Ma la ragione maggiore della prevedibilità è nella stanchezza della presa in giro dei tic della sinistra politicamente corretta.

Dalla Terrazza di Ettore Scola, passando per Ferie d’agosto fino ad arrivare oggi a Checco Zalone o a Enrico Brignano la critica alla superiorità morale della sinistra è diventata ormai un tic: non più di una sinistra con il vizio sano dell’autocritica, ma di un pensiero un po’ reazionario travestito da sinistra. Dove il professore frustrato, il militante nevrotizzato dal fallimento della politica, l’artista velleitario sono macchiette non di un cinema di critica sociale ma di una schiera di Pierluigi Battista e dei loro editoriali fintamente corrosivi.

Se il personaggio di Jean-Louis Trintignant della Terrazza era patetico e commovente, se quello di Silvio Orlando di Ferie d’agosto era farsesco, il professore di Luigi Lo Cascio in Il nome del figlio è nulla. Ha scritto un libro su Leopardi che non ha venduto niente, passa il tempo a twittare perché non sa più costruirsi legami reali, non fa più sesso con la moglie, e rimprovera il cognato Paolo per avergli rubato l’anima in un episodio di quando erano ragazzi: floscio come una copia di una copia di un gruppo di autocoscienza di reduci degli anni settanta. Per capirci: ci sono varie scene in cui si pulisce gli occhiali.

Ma dietro l’inefficacia artistica c’è una questione etica: mettere alla berlina una generazione di cinquantenni che hanno sepolto le loro speranze umane e politiche in nome di piccole comodità borghesi non somiglia veramente a un atto di critica, ma ha il sapore di un’indulgenza plenaria: “Nonostante tutto sono simpatici”.

E invece no. I protagonisti di Il nome del figlio possono essere molto antipatici. E lo sono soprattutto nelle due scene più fastidiose nel loro strizzare insistentemente l’occhio allo spettatore ideale.

La prima è questa.

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Non la trovate irritante?

Non la trovate falsa se avete presente questa scena?

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Siamo un momento in cui, appena dopo che la tensione è esplosa e gli insulti sono volati oltre il consentito, come per magia si reinstaura un equilibrio: tutto questo accade grazie al fatto che Claudio mette sullo stereo Telefonami tra vent’anni di Lucio Dalla, e i cinque cominciano a cantare e ballare, ridacchiano, fanno mossette, mimano gli strumenti, ammiccanti e prodigiosamente empatici. Non c’è modello di scena più menzognera di questa. Ci sarebbe da mettere una norma che vieta questo tipo di scene nei film italiani: di colpo, ogni conflitto sparisce e le persone cantano insieme, con la voce tirata, una hit degli anni ottanta; il karaoke dell’anima.

Le altre scene ruffiane – anche queste da vietare in un ipotetico minculpop applicato al cinema italiano – sono i flashback al rallentatore, che servono da correlati oggettivi a uno stato d’animo diffuso ma intangibile. In questo caso c’è addirittura un’insistenza in più: flashback+rallentatore+tuffi in mare.

Serve, tutto questo? No, anzi. Rende didascalico il senso della storia dei cinque amici: loro oggi sono così perché trent’anni fa erano così, quante cose sono cambiate… quanto siamo invecchiati male… Perché abbiamo bisogno di questo tipo di determinazione psicologica? Perché, per stigmatizzare un presente di fallimenti e compromessi, abbiamo bisogno di un virato seppia dove ancora c’era del candore e se si ballava Dalla e ci si tuffava dagli scogli si era ancora così innocenti?

E se Marco Baliani e Manuela Mandracchia (i genitori Pontecorvo) sono davvero bravi a rendere tridimensionali le immagini vintage, sembra proprio che la funzione di questi flashback sia sprecata: non ci dicono nulla che noi spettatori già non sappiamo, ma ribadiscono come un monito del tempo che fugge la morale inesorabile del film. Si può essere solo conformisti, ci si può arrendere al proprio carattere e alla propria mediocrità borghese come al proprio destino, e farlo forse non è così male.

Quando assistiamo al parto di Simona nell’ultima scena del film, dovremmo pensare in fondo di aver attraversato insieme ai personaggi la bufera e sentirci augurare che la vita va avanti, nonostante tutto, nonostante le meschinità, le invidie e le disfatte. E invece il sentimento che affiora è che quel figlio arriverà in un mondo infernale, in cui i personaggi non cambiano, non imparano nulla dai loro errori, e in fondo pensano di essere sempre dalla parte della ragione.

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