17 luglio 2016 12:17

Anche se probabilmente non la conoscete, Lucia Calamaro è la migliore scrittrice italiana vivente; o se non vogliamo essere così apodittici, è una dei migliori autori italiani viventi (contraddizione sintattica compresa). La ragione per cui il suo nome probabilmente non vi è familiare è che Calamaro ha scritto finora solo per il teatro, ed è difficile che i drammaturghi in Italia (nonostante l’ultimo Nobel per la letteratura italiano sia andato a Dario Fo) abbiano un riconoscimento al di fuori degli addetti ai lavori – così è possibile che vi diranno poco nomi come Stefano Massini o Letizia Russo, Eleonora Danco o Fausto Paravidino, e nemmeno quello di uno come Antonio Tarantino, maestro settantenne oggi in precarie condizioni economiche, per il quale in questi giorni ci si sta dannando per vedergli assegnato l’aiuto previsto dalla legge Bacchelli.

Avevo già provato a tessere le lodi di Calamaro in un articolo di qualche anno fa, dopo aver visto il suo penultimo spettacolo, Diario del tempo, dopo che lei aveva vinto vari premi Ubu con L’origine del mondo; e quindi potrei solo calcare sui toni encomiastici, assumendomi il rischio dell’iperbole, dopo aver assistito a una prova del suo ultimo lavoro, La vita ferma; ma quello che vorrei invece fare è partire dai suoi testi, lasciarli parlare.

Ecco per esempio un breve brano che si trova all’inizio di Magick:

Scrivo/racconto la storia di mia madre e mio padre e in parte la mia biografia, per lo più giovanile perché appartengono tutte e tre, in modo diverso, a una vita che non riesco più a riconoscere né come mia né come reale, sebbene mi sia empiricamente familiare. Una vita di cui, in generale, mi vergogno e basta. Da cui ho ereditato un certo numero di incidenti, tra cui il mio incontro, protratto, con un mago, Georges.
Mia madre, Laura, toscana, minuta, bella donna, arrivata nella capitale da un paesino del marmo di Carrara, è morta di un Alzheimer precoce venti anni fa, a cinquant’otto anni. È morta sola e lontano, senza capire una parola, in esilio, in una clinica per malati terminali a Montevideo, Uruguay. Mio padre Ennio, ha settantasei anni e vive in Argentina, sempre a bordo piscina, ma io dico a mio figlio che suo nonno è con gli angioletti e non ho più alcun rapporto con lui.
Da quando sono madre ho smesso, e con evidente giovamento, di essere figlia.
Questa è la loro storia, in parte la mia. Quella di mia madre infelice e basta, senza appello. Una sfortuna epica la sua, irreale e definitiva. Tutto esagerato e ingiusto. Di che motivare chiunque a non rinascere. Quando parlo di me è per parlare di lei, perché parlare di questa donna, Laura Marchi, non si può. Non ha lasciato tracce se non nella discendenza. Senza che nessuno se ne accorgesse, è stata fatta a pezzi, poi mangiata, dalla sua stessa vita. Un curioso processo di autocombustione. Di lei non è rimasto niente.

Questa mezza pagina è una parte di una specie di intro che Lucia Calamaro prepone al suo testo teatrale: sta in un libro abbastanza introvabile del 2012, Il ritorno della madre, pubblicato da Editoria e Spettacolo, che raccoglie insieme a Magick, L’origine del mondo e il suo primo testo lungo, Tumore, che rivelò il suo talento puro nel 2007.

Ho visto Tumore tre, quattro volte in scena, ogni volta restandone incantato, e poi ho editato il testo per un’antologia di teatro. Sembrava un brogliaccio sconnesso – la scrittura di Calamaro può apparire a prima vista disordinata, se non addirittura amatoriale, perennemente in fieri – ma ancora oggi a rileggerlo per l’ennesima volta, ci ho trovato quella folgorante intelligenza che solo una incredibile consapevolezza artistica può mettere a servizio della pagina.

In Tumore ci sono una dottoressa e una madre che si danno battaglia a colpi di battute sopra le righe mentre una figlia malata di tumore sta per essere sottoposta a un’operazione che le sarà fatale. I due personaggi sembrano impazziti: logorroici, autoriferiti, enfatici, clowneschi, si agitano a dover riempire con un getto inesauribile di parole un’identità emotiva esplosa, attraverso la quale non si rendono fino in fondo conto di quello che sta accadendo.

Dottoressa (titubante) Signora, sua figlia sta male.
Madre Anch’io sto male.
Dottoressa Sì, ma sua figlia sta male, male, male, MOLTO male.
Madre Anch’io sto male, male, male. (Pausa). Ogni tanto, bene.
Dottoressa Signora… (A parte) Io non so come dirglielo, come glielo dico, come faccio a dirglielo?
Madre Non me lo dica.
Dottoressa Eh, ma devo proprio dirglielo.
Madre E lei non me lo dica.
Dottoressa Eh… ma è importante, devo dirlo.
Madre Me lo dica.
Dottoressa Le è caduto un mignolo.
Madre Uno solo?
Dottoressa Tutti e due.
(La Madre si sbilancia in avanti e finisce per appoggiare la testa sulla guancia della Dottoressa). Su, su, su, non faccia così, andiamo, andiamo, che non ho finito, mi dispiace proprio ma non ho finito… Signora, su, su, su (la rimette dritta, la guarda e ricomincia), signora: sua figlia ha avuto due emorrargie, tre arresti cardiaci, un collasso e ha un TU… mmmmmm… ORE, eh?

(La Madre si affloscia di colpo in asse, la Dottoressa la sorregge al volo). No no no no, non faccia così, su, su, su, su, signora stia su, regga, regga, lei deve reggere, lei è la mamma, deve reggere, regga eh… Lascio? Lascio? Su, da brava, io adesso lascio e lei sta su.
(Lo fa. La Madre rimane in piedi, poi lentamente si gira verso il pubblico).

Madre Mi sento male.

Rileggere questo pezzo – la scena in cui una madre viene a sapere che la figlia ha un tumore incurabile – fa pensare a tutta quella letteratura della malattia, ai grief memoir che negli ultimi anni hanno occupato una parte considerevole della fiction e della non fiction contemporanea. Ma qui Calamaro utilizza uno sguardo sghembo: forse quello che lei stessa in un’intervista definisce grottesco rioplatense citando la sua formazione sudamericana, una forma di ironia surreale che porta chi legge o chi vede la sua opera a interrogarsi in modo diverso sulla malattia o sulla morte.

Renato Palazzi nella sua prefazione al Ritorno della madre lo scrive in modo molto preciso:

Si potrebbe dire che l’autrice usi la vita per rappresentare la morte, e usi la morte per rappresentare quell’abisso di dolore che ne deriva e le si accompagna. Tutte le sue opere si riducono in fondo a questo, a una sola, reiterata epifania del dolore cosmico, del dolore come inscindibile componente della condizione umana. Forse nessuno sa esprimere come lei il dolore allo stadio primordiale: un dolore non spiegabile e non redimibile, un dolore che non riesce neppure a prendere una qualunque forma stabilita.

In Malattia come metafora, negli anni settanta Susan Sontag metteva in guardia – come già aveva fatto qualche anno prima in Contro l’interpretazione – dagli eccessi ermeneutici: le metafore, in particolare quelle legate alle malattie, aggravano di interpretazioni funeste, spesso punitive, fuorvianti, il nostro corpo già martoriato. L’effetto è quello di disapprovare il malato moralmente, colpevolizzandolo. Lo stigma etico che si imprimeva sui lebbrosi o sugli appestati non è molto diverso da quello che s’imprimeva sui malati di aids, per fare un esempio.

Simona Senzacqua e Riccardo Goretti nello spettacolo La vita ferma, al festival Inequilbrio a Castiglioncello, giugno 2016. (Lucia Baldini)

Ma nell’immaginario di oggi, all’opposto, nel tempo del paradigma vittimario, dell’esibizione del dolore, riuscire a trovare una scrittura empatica evitando la trappola del ricatto emotivo e allo stesso tempo facendo sì che quel dolore, quella malattia e quella morte siano figura di altro, è possibile davvero solo se si ha un’idea verticale della condizione umana.

Per questo Calamaro deve avere un posto d’onore nel canone contemporaneo: il suo mondo è composto di un’umanità che è geneticamente traumatizzata; saper raccontare questo trauma come metafora di uno spirito non solo sociale è il suo genio.

La scrittura teatrale, più che la narrativa, con i suoi corpi a cui dare vita e i suoi spazi da riempire può essere lo strumento plastico privilegiato per ottenere questo.

Quello che segue è uno dei monologhi che recita Federica Santoro in Diario del tempo: il suo personaggio è una sorta di Winnie di Giorni felici di Beckett.

Sprofondata in un materasso da cui non riesce ad alzarsi, ma pronta a riprodurre tutta una retorica automotivazionale che funziona come un ouroboros, si nutre delle parole stesse che lei pronuncia, trasformando l’autoriflessione in autofagia, e in una dichiarazione commovente di assoluta impotenza.

E sebbene lui parli lentamente, con chiari intenti pedagogici, io non lo ascolto già più. Alla terza frase la mia attenzione si evapora. È sempre stato così: per le cose concrete non ho testa, non seguo, non capisco proprio, qualcosa in me si ottunde, chiude, e se ne va. Ma questo sentimento di non assimilazione del dato, concreto e non, ultimamente non è solo rispetto alle cose. È un po’ un sentimento generale, diffuso, onnipresente. In tutta onestà, ‘ultimamente’ qui non è l’avverbio più sincero; direi che ‘di nuovo’, o ‘ancora una volta’ una grossa parte di me si è congedata da se stessa. […] Niente non mi si attiva. […] Davanti a me c’è un formulario che devo riempire da un paio di mesi e che non sto riempiendo. Dopo compilato e firmato, lo dovrei spedire. Poi dovrebbe tornare indietro rispedito dal mittente. Questo significherebbe che ho preso un impegno lavorativo con il suddetto mittente. Ma solo l’idea di impegnarmi con qualcuno mi affatica. Per non parlare lo stato d’ansia in cui mi piomba la prospettiva di riempire un formulario, di qualunque natura essa sia. Panico di sbagliare casella, di rispondere dove non dovrei, di dovere cancellare e che tutti si accorgano delle cancellature, del disordine mentale che mi assale in questi frangenti. Perché mi fanno sentire incapace e non è un bel sentire. I formulari, quintessenza dell’armonia amministrativa, a me fanno un effetto contrario, mi buttano nel caos.

La vita attiva diventa la malattia. Il disorganico, l’oggettualità viene invidiata, come nell’Origine del mondo dove al centro della scena campeggia un frigorifero come una semidivinità; come nella Vita ferma in cui il rapporto tra i vivi e i morti può avverarsi solo tramite un campionario degli oggetti lasciati in eredità.

E al tempo stesso il linguaggio finisce con il diventare la nostra gabbia. Di fatto, nei testi di Calamaro, nessuno dice e nessuno risponde: parlano tutti ininterrottamente tra sé e sé, e gli scambi avvengono in quei momenti in cui i monologhi interiori arrivano alla voce. Le frasi perdono la loro funzione referenziale per diventare un accumulo disarticolato che riproduce invece perfettamente la sensazione di sovraccarico semantico da cui siamo circondati: ma la sincope, l’onomatopea, la percussività, la segmentazione non servono solo a dare vita a uno stile ossessivo, febbrile, quanto a far sì che di questa lingua alterata il maggiore scrittore sia il pubblico, il lettore stesso. Tocca a lui scegliere se quello che vede tratta di sapienza o di futilità, di un dolore reale o di una messa in scena, della vita vera o di un’esistenza da fantasmi.

Riccardo Goretti, Simona Senzacqua e Alice Redini in La vita ferma, al festival Inequilibrio a Castiglioncello, giugno 2016. (Lucia Baldini)

Il suo ultimo spettacolo, La vita ferma, ha esordito al festival di Castiglioncello un paio di settimane fa – andrà in tour per un lungo anno; non perdetelo.

Se possibile, dimostra una coscienza ulteriore di questa ambiguità. C’è una famiglia composta da Riccardo, Simona e la loro figlia Alice. Quel che non va è che Simona è morta ma, si potrebbe dire, si ostina a fare il fantasma. A pieno: dal primo secondo è sulla scena, e parla con Riccardo come se non fosse cambiato nulla. Non vuole che la si dimentichi, ha ancora molte cose da spiegare, ci sono infinite discussioni che non sono state esaurite.

Riccardo Non è che è proprio normale come situazione
Simona Anche a me fa strano non ti credere
Riccardo Non è che non sono contento non ti credere
Simona Io non so se sono contenta… Hai paura
Riccardo No ma non diamo per scontato che sia una situazione normale
Simona Scusa…
Riccardo Figurati…
Simona Mi senti ancora com’ero basta che non ti faccio paura
Riccardo Ti chiedo solo lasciami un attimo per capire
Simona Sono fredda?
Riccardo Un pochino
Simona Mi chiedevo quanto tempo? No volevo dire quanto ci vuole? Ecco rispetto a come sei fatto tu… 
o meglio a come è fatta una persona, la sua memoria… ehm… insomma… Riccardo, ma tu mi dimenticherai?
Riccardo Ammazza che domanda Simona… ma poi scusa, anche se la risposta fosse sì non te lo direi
Comunque… sinceramente? Forse tra una ventina d’anni… un pochino…
Simona Però Riccardo preferiresti, se ci fosse una pillola per dimenticarmi la prenderesti?

Riccardo Tanto non c’è la pillola per dimenticarsi… no che non la prenderei… forse un po’ in questi primi mesi…

Simona Ma no che fai ti anestetizzi?
Riccardo Ma no, anzi… mi sono fatto tutto un piano… ho messo tutti i tuoi vestiti a fiori nell’armadio mio, così poi quando la mattina scelgo cosa mettermi ti sposto capito? Vestito di velluto… Simona d’estate… completo marrone… Simona d’inverno… vabbè.
Simona Non idealizzarmi però, vorrei farti arrabbiare anche da morta essere sempre un po’ fastidiosa un po’ impegnativa
Riccardo Guarda non ti preoccupare credo non ci sia pericolo
Simona Alice come sta?
Riccardo Insomma…
Simona Chiede di me?
Riccardo Sì, è sempre più uguale a te, il modo di stringere la forchetta tra i denti mentre mangia la carne… Senti Simona ho una domanda. Che faccio con le ceneri, le tengo?
Simona Certo! E che fai mi butti?
Riccardo No perché se le tengo io non si può mettere la lapide.
Simona Ma ne dobbiamo parlare proprio adesso?
Riccardo Senti Simona ora mi ridai quella lampada?
Simona No!

Colluttazione con lampada

Riccardo Credevo tu ti fossi distratta… Dai forza Simona dai, non ricominciare pure con questa, se t’impunti su ogni cosa che devo levare, se ti attacchi a ogni pezzo, …prima la lampada, ieri la poltroncina, poi quei quadri orrendi di tua nonna…

Nelle sue note al testo Calamaro definisce La vita ferma “un dramma del pensiero”, ma anche qui questa lucidità, questa cerebralità è utile a fare il percorso opposto: a partire dalla riflessione teorica si arriva al nucleo più intimo della nostra carne.

Non la morte dunque e non il problema del morire e di chi muore, che sappiamo tutti risolversi sotto la misteriosa campana del nulla e dell’incredibile conosciuto, che strangola sul nascere ogni comprensione.

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Ma i morti, il loro modo di esistenza in noi e fuori di noi, la loro frammentata frequentazione interiore e soprattutto il rammendio laborioso del loro ricordo sempre cosi poco all’altezza della persona morta, così poco fedele a lei e così profondamente reinventato da chi invece vive.

Graziano Graziani in un articolo di febbraio riusciva a dare un perfetto compendio dell’opera di Lucia Calamaro, e ne faceva anche lui il paradigma di una generazione di artisti – autori teatrali – a cui dovrebbe essere attribuita in Italia una centralità che ancora non hanno: la scrittura drammaturgica sa tenere “dentro tutto il posticcio della messa in scena ma proprio per questo risulta profondamente autentica”.

Tutti i personaggi di Calamaro cercano, come capita sempre con la letteratura, una forma di eternità, di emancipazione dalla contingenza, ma lo fanno in modo tanto scoperto, vittimistico, goffo, che proprio per questo ci risultano più vicini, così irrimediabilmente umani e per questo indimenticabili.

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