22 febbraio 2017 12:28

L’Oscar come miglior film quest’anno potrebbe essere vinto da Moonlight o da Manchester by the Sea. Sono due film con un tema comune e un’idea di cinema che li lega. Il soggetto centrale è la fragilità dei maschi, tra paternità non biologica e formazione attraverso il dolore. Lo stile è quello di un cinema indipendente che sembra perfino poco americano, con sceneggiature ellittiche, movimenti di camera sinuosi e un montaggio molto autoriale.

Anche i due protagonisti sono simili: sembrano apolidi, adattati per inerzia a un mondo che in realtà ritengono ostile. Parlano poco, distolgono lo sguardo e si lasciano interrogare da altri senza scomporsi, coltivando una rabbia implosa capace di deflagrare solo per mostrare quanto sia oscuro quello che nascondono.

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In Moonlight la storia si svolge in tre tempi, raccontati cronologicamente con alcuni flashback. Chiron, detto “Little”, è un ragazzino nero con una madre tossica, bullizzato dai compagni, che trova un mentore in Juan, uno spacciatore alto e muscoloso che prende a cuore questo scricciolo e comincia a comportarsi come un padre adottivo.

Nel secondo flashback, Chiron è un adolescente mingherlino e spaesato, con una madre tossica e ricattatoria, incerto se fidarsi dell’amicizia e dell’amore di un suo compagno. Nel terzo momento, Chiron è diventato “Black”, uno spacciatore muscoloso e temuto, proprio come Juan, ma ancora incapace di superare i traumi del passato e di vivere in modo normale la sua omosessualità.

I conti col passato
Anche in Manchester by the Sea il tempo, la polarità tra quello che ci è successo e quello che siamo, è centrale: Lee Chandler (Casey Affleck) è intrappolato nell’impossibile elaborazione dei traumi del passato (“I can’t beat it, I can’t beat, I’m sorry”, dice in una delle scene più belle del film), le cui immagini di pura bellezza e puro dolore si intersecano in un montaggio straziante con quelle del presente come dei fari accesi nel buio.

Sopravvissuto a se stesso, come una sorta di paria emotivo, a Lee accade qualcosa che dovrebbe scuoterlo: suo fratello muore improvvisamente d’infarto, e lui viene nominato tutore di Patrick, suo nipote figlio unico di una madre che l’ha abbandonato da tempo. Si trova a decidere quindi se ricominciare a vivere, ad avere relazioni, a sentire qualcosa, o se rimanere impermeabile a qualunque affetto, roboticamente dedito al suo lavoro di custode, rintanato in un seminterrato che assomiglia a una bara.

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È singolare che, nonostante Manchester by the Sea sia un film i cui protagonisti sono tutti bianchi (il ceto medio impoverito di una città portuale) e Moonlight sia un film i cui protagonisti sono tutti neri (in una Miami dove l’unico modo per provare a diventare borghesi è la microcriminalità), la questione sociale resti solo uno sfondo per raccontare la stessa America, dove le famiglie tutte da reinventare sono le uniche alternative alla solitudine, alla disperazione, alla psicosi.

La sfida che Barry Jenkins e Kenneth Lonergan (entrambi sceneggiatori e registi) lanciano è che questa possa essere una faccenda tra maschi. Tra fratelli, tra padri e figli, tra zii e nipoti, tra adulti e ragazzini, tra amici, tra amanti, tra maestri e allievi (le scene in cui Juan insegna a nuotare a Chiron, o quelle in cui Lee pesca con Patrick sono una delle chiavi del film), tra uno che cucina per l’altro (non è raro vedere un maschio che prepara la cena per un altro maschio in un film?).

Uomini soli
E le donne? Sono state incapaci di amarli, sono sparite, li hanno lasciati soli, prendono ancora goffamente le distanze (come la madre di Patrick), e se sono sopravvissute anche loro alla durezza del mondo lo hanno fatto da lontano.
Sembra esserci anche qui una sottile comunanza tra le due scene più forti di Moonlight e Manchester by the Sea: nel primo è la visita che fa Chiron alla madre anziana, nel secondo è l’incontro per strada tra Lee e la sua ex moglie con cui non parla apertamente da anni.

È coraggiosa la scelta di entrambi i registi di mostrare i protagonisti come individui intrappolati

Entrambe queste donne (Naomi Melanie Harris e Michelle Williams, bravissime a reggere un ruolo esasperato) si spendono in dichiarazioni d’amore, sembrano finalmente consapevoli del calore che avrebbero potuto dare, piangono e chiedono perdono per le sofferenze non volute che hanno procurato, si augurano di cuore che i loro “ragazzi” ce la facciano, ma è impossibile rimediare a una ferita così profonda.

Chiron e Lee si possono fidare solo di altri maschi, hanno imparato da uno spacciatore o da un fratello a cavarsela nel mondo, hanno pensato che non potessero più mostrarsi deboli altrimenti sarebbero affondati, e quando scoppiano a piangere è sempre la spalla di un maschio che li accoglie, un braccio di un maschio che li sostiene.

Non è facile vedere rappresentato sullo schermo il dolore maschile ed è coraggiosa la scelta di entrambi i registi di mostrare i protagonisti come individui intrappolati, sprofondati in se stessi, ammutoliti, e quando sfogano la loro rabbia (prendendo a pugni disperatamente qualcuno alla ricerca di una possibile violenza catartica) è solo per far male a se stessi: Chiron e Lee sono due che non ce la fanno, che stanno facendo una fatica sisifea per mandare avanti la loro vita. E se forse può cambiare qualcosa per loro è solo per una piccola grazia che ci metterà anni per intaccare la campana di vetro che hanno costruito intorno a sé.

Emozioni tra le crepe
La scelta che spesso fanno sia Jenkins sia Lonergan è di compensare la sottrazione data dall’implosione dei loro due protagonisti con un pieno di musica. Lonergan addirittura in molte scene decide di cancellare direttamente il sonoro, in modo che sia solo la musica a segnare i passaggi emotivi. Jenkins modella i suoi piani sequenza e le sue zoomate sull’uso pervasivo della musica alla Wong Kar-Wai.

Ma quello che potrebbe sembrare un riempitivo, una facile scelta registica (Antony Lane sul New Yorker scrive che l’Adagio in sol minore di Albinoni dovrebbe essere vietato nei film), finisce invece per allargare e rompere la struttura formale del film, facendo dilagare l’emozione come da una crepa. E la reazione che proviamo noi spettatori è quella di poter respirare, mangiando l’aria dopo che qualcuno ci ha tenuto i polmoni pressati fino a un secondo fa.

Se la musica rappresenta il sollievo all’assurdo, alla disperazione, Moonlight e Manchester by the Sea ci dicono ancora che se c’è invece qualcosa da cui possiamo attingere fiducia è l’adolescenza, rappresentata come un tempo quasi mistico. L’attenzione che Lonergan e Jenkins dedicano alle relazioni tra ragazzi, a scuola e nelle uscite la sera, è spiazzante e commovente: quello che accade in queste situazioni – gli amici che vanno a salutare a casa Patrick appena dopo la morte del padre e si ritrovano a cazzeggiare su Star Trek o Chiron e il suo amico Kevin che chiacchierano sulla spiaggia e finiscono per baciarsi – rappresenta la possibilità di amore che ci portiamo dietro, che riuscirà a tenerci in piedi quando la durezza sembrerà averci schiantato, aver annullato la nostra umanità.

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