19 giugno 2014 11:20

A ripensarci, è strano quanto poco si parlasse tra noi della Fiat.

Abitavamo tutti, io e i miei compagni di scuola, tra il quartiere Santa Rita e il quartiere Mirafiori, a meno di un chilometro dalla fabbrica, e buona parte dei padri e delle madri lavorava in Fiat (non alla né per la: in) o nell’indotto Fiat, per lo più come operai o quadri medio-bassi, perché erano quasi tutti immigrati dal sud, molti ormai, nei primi anni ottanta, figli (e i miei compagni di scuola nipoti) di immigrati, ma tutti ancora meridionali nei redditi, negli accenti, nelle facce e, ovviamente, nei cognomi: Pichierri Barile Di Palma Beninato Giunta Lo Giudice (prima fila dal basso della foto di seconda media).

Della Fiat, nihil nisi bene: c’era Agnelli, lo stile-Agnelli, la Juventus, lo stile-Juventus, le colonie marine per i figli dei dipendenti, le attività ricreativo-culturali. Mio zio era iscritto alla Sezione Filatelia del Dopolavoro, morendo mi ha lasciato l’album dei francobolli. In gioventù, prima di fare il salto da colletto blu a colletto bianco, si era spappolato una mano sotto una pressa (e solo attorno ai vent’anni ho capito che la storia che in quel momento stava giocando – che in officina si divertivano a fare, sotto le presse, lo stesso gioco scemo che mio fratello faceva sul tavolo della cucina passando rapido la mano sinistra sotto un coltello senza taglio – era solo una bugia che mi avevano raccontato, una bugia per sdrammatizzare), ma l’incidente non gli aveva fatto cambiare idea: mio zio adorava la Fiat e tutto quello che le stava intorno.

Che la Fiat potesse essere anche un problema, che ci fossero stati scioperi, licenziamenti, marce degli operai e contro-marce degli impiegati – tutto questo l’ho scoperto solo negli anni del liceo, solo una volta uscito dal distretto Santa Rita-Mirafiori. Come accade, avevo sempre vissuto al centro della tempesta e non me n’ero mai accorto.

Lasciata Torino, ho poi letto più che potevo sulla città e sulla Fiat, e soprattutto la letteratura di genere: il vecchio supremo romanzo giallo che è La donna della domenica (e il solo un po’ meno supremo A che punto è la notte); e l’interessantissima intervista horror di Giampaolo Pansa a Cesare Romiti, Questi anni alla Fiat (della quale ricordo soprattutto un’atmosfera, un modo di parlare/pensare che suonava, come dire, deliziosamente inumano). Così adesso ho comprato e letto anche il libro di Giorgio Barba Navaretti e Gianmarco Ottaviano Made in Torino? Fiat Chrysler Automobiles e il futuro dell’industria (Il Mulino, 11 euro). È un bel libro, scritto in modo chiaro e, che non guasta, elegante (io sono un po’ un fan di Barba Navaretti, ritaglio e metto da parte i suoi articoli sul supplemento domenicale del Sole 24 ore: oltre a essere chiaro ed elegante, è probabilmente il più a sinistra tra gli economisti italiani con doppio cognome).

Il libro parla in sostanza di quello che ha fatto Marchionne in questo decennio, e soprattutto della fusione della Fiat con la Chrysler. Ma la prende felicemente alla larga: il primo capitolo spiega come si producono le automobili; il secondo fa il punto sul mercato mondiale dell’automobile; il terzo fa il punto sui tentativi di fusione (i più falliti) tra case automobilistiche prima di Fca; il quarto e il quinto stringono sul presente e sul futuro di Fca concentrandosi sulla politica sindacale e su quella industriale del nuovo marchio. Alla fine, s’imparano molte cose interessanti non solo su Fca ma sull’industria automobilistica in generale, e sull’industria tout court. Di altro, come del destino di Torino, degli stipendi dei manager, delle chances che ha Fiat nei mercati emergenti, o dell’idea stessa di continuare a produrre automobili per un mercato europeo che sembra saturo, si parla poco.

Ho fatto quattro domande (da lettore interessato, non da competente in materia, e me ne scuso) a Giorgio Barba Navaretti.

*Alla fine del vostro libro, tu e Ottaviano passate in rassegna i falsi miti che circolano intorno all’industria automobilistica. Il primo falso mito è quello secondo cui il costo del lavoro incide in maniera determinante sui costi di produzione. Io credevo a questo falso mito, credevo che fosse per questo che le aziende delocalizzano. Non è così, dunque? E perché allora la Fiat chiude i suoi stabilimenti italiani, o mette i dipendenti in cassa integrazione per anni? *

Il costo del lavoro diretto sul totale dei costi di produzione (ossia costo di fabbrica, senza tenere conto delle attività di management, amministrative ecc.) è circa il 5 per cento anche per i modelli generalisti (vedi Panda). Se si includono i fornitori si sale di pochi altri punti percentuali. In effetti l’incidenza è bassa. È così in parte per l’automazione, ma solo in parte. Per esempio, nell’assemblaggio, il ruolo dei lavoratori è fondamentale. Tra macchine e lavoratori c’è una forte complementarità, non sempre sostituibilità. È così anche perché si è riusciti ad aumentare moltissimo la produttività delle fabbriche.

La Fiat ha applicato a tutti i suoi impianti o quasi il World Class Manufacturing (un’applicazione intensiva della lean production giapponese), che ha permesso risparmi di costi e aumenti di produttività colossali in questi anni. È così perché i costi fissi e il loro ammortamento (impianti; fabbricati; tecnologie) incidono invece moltissimo sui costi totali di produzione. Questo spiega anche perché le fabbriche, nelle economie mature, hanno un futuro. A parte casi disperati come Termini Imerese, chiudere degli impianti per aprirne altri è un’operazione costosissima. Nuovi impianti nei paesi emergenti, come quello serbo della Fiat, non sono tanto spiegati dal più basso costo del lavoro, ma soprattutto dagli stratosferici incentivi all’investimento. Se poi si ragiona relativamente al prezzo del prodotto, il costo del lavoro incide sempre meno con l’aumentare della qualità dei prodotti.

La produzione Fiat in Italia si sposta su prodotti lusso (Maserati) o premium (Alfa, Jeep) perché i prezzi e i margini di questi prodotti sono ancora più elevati e il lavoro incide ancora meno (3 per cento per una Maserati). Le fabbriche in Italia oggi sono ancora in parte vuote, non perché i paesi emergenti hanno preso il posto di Mirafiori, Melfi e le loro consorelle, ma perché in Europa il mercato è crollato, non c’è domanda e contrariamente ad altre case (vedi Peugeot) la Fiat ha deciso di non uscire con nuovi modelli. Peugeot avrebbe portato il libri in tribunale se non fosse intanto intervenuto lo Stato francese. Certo, se il mercato ora riparte, Peugeot ha più modelli di Fiat. Quello di Marchionne è stato un azzardo, ma anche grazie alla cassa integrazione e alla cassa di Chrysler per ora ha tenuto l’azienda in piedi e può farla ripartire su nuove basi, facendo cose che senza l’America non avrebbe mai potuto fare.

  • La storia della Fiat, per chi la guarda dall’esterno, è costellata di figure eroiche: Valletta, Agnelli, Romiti. In Questi anni alla Fiat, *Romiti dice di aver salvato o contribuito a salvare la Fiat. Ma dieci anni fa, prima dell’arrivo di Marchionne, la Fiat stava fallendo. È successo qualcosa di tragico negli anni novanta o la tragedia si stava preparando da tempo, dagli anni sessanta, settanta, ottanta?

Credo soprattutto che siano stati fatti molti errori di management e che, nel consociativismo italiota, si sia cercato di presidiare comparti non sinergici del sistema economico. Si può definire diversificazione del rischio, ma anche diluizione delle risorse finanziarie e degli investimenti. Ora il fuoco è nuovamente sul core business, automobili.

Detto questo, non penso sia molto facile trovare manager in grado di gestire operazioni come queste. Ci sono momenti nella storia di aziende o anche di paesi, in cui c’è bisogno di uno scarto, un salto di qualità, un cambio di traiettoria e paradigma. Sono partite d’azzardo che richiedono follia, lungimiranza e un amore per il rischio molto elevati. Un’economia sana dovrebbe starne alla larga, si potrà pensare. Forse, ma è così o così. Senza folli disposti a rischiare e a immaginare scenari radicalmente diversi da quelli che normalmente si pensa di poter raggiungere, molte grandi cose non si sarebbero fatte. Penso siano processi di cui forse le società contemporanee, appunto in certi punti di svolta, nella storia di un paese o di un’azienda come il caso che stiamo trattando, non possano fare a meno. Questi stessi scarti sono stati anche alla base di molti pessimi passaggi storici, davvero pessimi. In effetti lo scarto non basta. Lo scarto è positivo solo se poi la follia e il delirio di onnipotenza vengono innestati in un disegno razionale e coerente in se e con i valori e morali e civili di una società. Nel caso Fiat, da quanto abbiamo visto e capito con Ottaviano, ci pare sia così.

Da torinese, mi interessa molto sapere che cosa succederà di Torino, di Torino città. Il titolo Made in Torino? *mi ha un po’ depistato, credevo che se ne parlasse, invece no. Tu hai idee in proposito? *

Anch’io sono torinese ed ex post mi è dispiaciuto non aver dedicato il libro a mio padre che era ingegnere, e ha progettato diversi pezzi di quella città tra Mirafiori e Santa Rita che tu descrivi e che anche lui amava profondamente. Lui era Torinocentrico, senza ombra di dubbio, e se avesse scritto un libro non avrebbe certo messo il punto interrogativo dopo* Made in Torino*. Ma guardando alla questione con sufficiente distacco credo che il punto interrogativo sia necessario. La storia di cui trattiamo nel libro è la trasformazione di un’azienda italiana in un gruppo globale. La pianta globale, che ora si chiama Fca, ha una radice profonda in Italia, che non è solo il retaggio storico, ma fabbriche, tecnici, competenze ingegneristiche, un reticolato di fornitori di componenti ecc. Ora però questa radice, come tutte le radici, marcirebbe rapidamente se non venisse nutrita e alimentata. Il vento globale genera strane trasformazioni. Chi vi è esposto non potrà continuare a fare quel che fa solo perché lo ha sempre fatto. Se c’è qualcuno che lo fa meglio di lui prima o poi dovrà chiudere e la radice marcisce. Dunque il retaggio storico non è garanzia di sopravvivenza. Ma l’aver sempre fatto quel che si fa può anche essere la ragione per cui lo si riesce a fare meglio degli altri.

Gli economisti chiamano questo vantaggio in tanti modi, i sunk costs (costi sommersi), ossia disporre di infrastrutture pagate e ammortizzate da tempo (le fabbriche) o le economie di agglomerazione, ossia le esternalità che si generano in seguito alla concentrazione geografica di attività complementari (i fornitori, le competenze tecniche ecc.). Ora, se vogliamo togliere il punto interrogativo da Made in Torino bisogna che questi vantaggi che ci derivano dalla storia permettano di continuare a fare automobili meglio degli altri e a costi più bassi. Per Torino, Marchionne promette un polo del lusso, delle automobili premium di cui abbiamo parlato sopra. Questo vuol dire spremere dal territorio (e ovviamente dal resto dell’Italia a cominciare dal modenese) il meglio che c’è. È possibile? Certo è un grande rischio. Il fatto che l’Audi nella sua incarnazione precedente producesse la Nsu Prinz non è consolazione sufficiente a trasformare l’Alfa Romeo nella Bmw. E l’idea che Torino e gli altri impianti italiani diventino una piattaforma per l’export in tutto il mondo è anche un rischio. Ma di nuovo è un salto di paradigma, una sfida che viene offerta non solo all’azienda ma a tutta la città. Se tutti, azienda e città la sapranno cogliere, allora toglieremo il punto interrogativo.

Giorni fa si è suicidata, accoltellandosi al ventre, Maria Baratto, cassintegrata Fiat di Pomigliano, quella che nel documentario *La fabbrica incerta (2009) dice: “A 22 anni montavo il tergilunotto sull’Alfa 33 da sola, oggi prendo psicofarmaci”. So che suona un po’ qualunquista, ma a te questa notizia, messa accanto a quella relativa alle stock option di Marchionne, non fa stringere i denti per la rabbia? Voglio dire: non c’è in generale, e anche nell’industria, una sperequazione mostruosa, inumana, nelle retribuzioni? Gli operai della Fiat sono poveri anche quando lavorano. È così è basta? *

Questa è la domanda più difficile. La mia risposta ha a che fare con cosa significhi essere un’operaia oggi e con il concetto di tempo. Cosa significa essere un’operaia? Un capitolo del libro è dedicato alla fabbrica contemporanea. Visitando gli impianti Fiat abbiamo capito come oggi il lavoro di fabbrica sia organizzato in modo radicalmente diverso da quando Maria Baratto montava il tergilunotto dell’Alfa 33. Se fosse tornata a Pomigliano, Maria Baratto sarebbe stata parte di un team di tre o quattro lavoratori, team con mansioni perfettamente definite ma ruotate a turno tra i membri. Mansioni sia manuali, sia cognitive (ad esempio risolvere problemi di base del macchinario), dove i lavoratori stessi contribuiscono a disegnare e migliorare il flusso produttivo. Accanto ad ogni team oggi ci sono dei dati con indicatori statistici, che misurano la produzione media, la varianza nell’output produttivo, i trend di miglioramento. Dati compilati spesso dai lavoratori stessi (scusa il mio generico uso di lavoratori anche se stiamo immaginando il lavoro di Maria, ma il lavoratrici e lavoratori per essere politicamente correct mi pare una finzione ed un’inutile sovrastruttura), i quali diventano dunque complementari nelle competenze e nelle mansioni, e difficilmente rimpiazzabili da cinesi, polacchi o messicani. Ma in questa nuova fabbrica Maria, cassaintegrata non ha fatto in tempo ad entrarci.

Il tempo appunto. Il problema è che se poi le fabbriche non producono a piena capacità è la cassaintegrazione che si compera il tempo di Maria, e la trasforma in una cittadina non attiva, passiva, inquieta, con un futuro incerto e gli psicofarmaci. La cassa integrazione ha permesso di comperare il tempo dei lavoratori mentre le fabbriche erano ferme. Ma non è in grado di riempire il vuoto del loro tempo lontano dalla fabbrica. Penso di nuovo alla Peugeot. Alla fine, lì come qui i soldi pubblici servono a tenere in piedi un sistema. Forse quelli usati per Peugeot hanno comunque tenuto gli operai in fabbrica a lavorare, nel frattempo hanno vissuto meglio di quelli di Pomigliano e di Mirafiori. Ma oggi credo che le fabbriche Fiat abbiano più possibilità di ripartire di quelle di Peugeot. A Grugliasco i cassa integrati della Bertone lavorano a pieno ritmo a fare Maserati. A Pomigliano molti, purtroppo non Maria, sono rientrati in fabbrica. Maria però ci ricorda che l’attesa e l’incertezza hanno comunque costi drammatici. Di questo dovemmo ricordarci. Ma dobbiamo anche ricordarci che lenire i costi della recessione è difficile per tutti. Penso inevitabilmente anche ai tanti imprenditori suicidi per debiti.

Tu però ponevi la domanda dell’ingiustizia salariale, le stock option di Marchionne rispetto al salario di Maria. Disuguaglianze immense. Dal lato di Marchionne mi vengono in mente risposte facili. Star system, talento e merito, meglio le stock option a lui che il dividendo ad azionisti che vivono di rendita eccetera. Ma qui dobbiamo parlare di Maria. I salari degli operai sono troppo bassi in Italia, ma una fetta immensa se la porta via il fisco. Dunque ridurre il famoso cuneo fiscale è una necessità, da questo punto di vista. Oltre a questo, il salario di Maria, se fosse sopravvissuta alla cassa integrazione, sarebbe aumentato con i guadagni di produttività della sua fabbrica. Questo è il futuro. Una quota maggiore del salario legata ai guadagni di produttività. Mi pare che il nuovo contratto Fiat in discussione ora preveda proprio di legare gli aumenti salariali ai guadagni di produttività dei singoli impianti. Dato che negli impianti finalmente gli operai hanno un ruolo vero, questa mi sembra una buona via per il miglioramento.

Oltre a quanto scrivo, davanti alla storia di Maria non ho altre risposte.

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