16 settembre 2019 15:57

Il corso di calcetto di mio figlio veicola un modello educativo agli antipodi del mio. Il guaio è che lui si diverte tanto a giocare e tutti gli anni si presenta il dilemma: continuare o no? – Cecilia

Anche se a me il pallone non interessa proprio, un anno fa ho iscritto mio figlio a una scuola calcio. Pensavo che saper dare due calci a una palla fosse utile per socializzare e inoltre mi dava gusto l’idea di infrangere un mio dogma genitoriale. Quanto me ne sono pentito. Mio figlio ha smesso dopo tre mesi perché, parole sue, “gli altri bambini urlano troppo e danno troppe spinte”. Ho capito che la scuola calcio non è come un corso di basket o di karate, perché il calcio non è solo uno sport: è una cultura, che si nutre di partite allo stadio, album di figurine, fantacalcio, squadre del cuore.

In un episodio di Hello daddy, la versione podcast di questa rubrica che esce ogni settimana su Audible, ho parlato con Enrico, un brillante allenatore di calcetto. Lui ha esordito dicendo: “Il calcio è una malattia”. Anche se ha ammesso che il contesto familiare può provocare il “contagio”, secondo lui alla fine è una passione che parte dallo stomaco. “Io per esempio ho avuto un padre che odiava il pallone”, mi ha spiegato. E ci sono appassionati di calcio insospettabili: “Pasolini era un malato di calcio. Ed è stato tra i primi a capire la forza, il fascino e la grande potenzialità di questo sport”. Visto che la passione di tuo figlio non deriva da condizionamenti familiari, mi pare chiaro che è un vero malato di calcio. Quindi non ti resta che accettarlo e fare il tifo per lui.

Questo articolo è uscito sul numero 1324 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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