26 febbraio 2016 15:08

Facebook ha recentemente introdotto una nuova funzione: le reazioni. Il nostro gradimento non si riduce più al semplice like ma si arricchisce di una paletta di nuove sfumature: Love (un cuoricino), Ahaha (uno smile che ride), Wow (uno smile che, come i bambini di Povia, fa Oooh), Sigh (lo smile ha una lacrimuccia) e Grrrr (lo smile è tanto arrabbiato). Questi piccoli smile, anzi emoji, come sono stati chiamati da chi, in Giappone, ha inventato questa cartoonizzazione dell’emoticon, sono carini. Anzi, adorable come sempre più spesso vediamo scritto sui lanci di Twitter che rimandano a video di cuccioli o di bebè.

Le reazioni di Facebook sono divertenti da usare e, tutto sommato, utili. Sotto la foto di un nostro collega ubriaco a una festa possiamo mettere un bel “Ahaha” o sotto il nuovo video di Rihanna un “Wow”, tutte cose che ci risparmiano la noia di scrivere un commento che sarebbe, molto probabilmente, banalissimo.

Fin qui tutto bene. Quando però cominciamo a vedere delle faccine Grrr o degli smile piangenti sotto le foto di un bombardamento in Siria, o sotto un’efferata notizia di cronaca nera o sotto un servizio sui migranti che annegano in mare, scatta una sensazione di straniamento. È davvero Grrrr la mia reazione? O sigh? O Wow? Cerchiamo di elaborare qualcosa di più articolato, ma nel dubbio è Grrr.

La sensazione è che i social network ci vogliano sempre più bambini. Più gente entrava in Facebook, più venivano introdotte gradualmente novità giocose: gli sticker (non è carino da morire il gattone Pusheen?), le gif animate, i video dei ricordi, la possibilità di appiccicare allegri smile gialli sulle nostre foto, eccetera. Il più sobrio Twitter, da parte sua, si affrettava a sostituire la sua anonima stellina dei preferiti con un più attraente cuoricino rosso.

I giapponesi, gli inventori degli emoji, da sempre usano la tecnica di rendere kawaii (carino) ciò che è grigio e noioso

Più Facebook diventa importante e pervasivo e più si trasforma in un parco giochi. Da una parte ci dicono che sostituirà i quotidiani e diventerà un immenso browser dell’informazione, e dall’altra sembra sempre di più Disneyland. E l’unione delle due cose non può non farci riflettere, soprattutto se pensiamo che per molte persone internet è solo Facebook.

I giapponesi, gli inventori degli emoji, da sempre usano la tecnica di rendere kawaii (carino) ciò che è grigio e noioso. Le istruzioni per fare i biglietti della metro sono illustrate con dei gattini, le rigide norme sui rifiuti sembrano dei manga, le fodere dei sedili degli autobus sono decorate con simpatici orsetti, quasi a scoraggiare eventuali teppisti con la dolcezza. La polizia ha una sua mascotte kawaii e, in tempi di turbolenze con la Cina e la Russia, anche l’esercito tenta la strada dell’adorable.

Si crea una bolla di infantilismo intorno al cittadino che si sente, da una parte, rassicurato e, dall’altra, forse, viene più facilmente controllato. Proprio come un bambino.

In occidente la cultura del kawaii è meno pervasiva e radicata, ma la importiamo dal Giappone fin dagli anni settanta. La Sanrio ha reso la cancelleria scolastica il regno di Hello Kitty, poi i cartoni animati, i manga, i primi robot buffi (tipo Yattaman) che ci regalavano una versione kawaii e innocua delle battaglie cruente di Mazinga e Gundam che tanto scandalizzavano le mamme italiane della seconda metà degli anni settanta.

Siamo dunque abituati a questo tipo di estetica e la riconosciamo subito. Anche un quarantacinque, cinquantenne italiano di oggi ha familiarità con certe espressioni, certi colori, certe soluzioni grafiche. Gli emoji di Facebook o quelli che usiamo su WhatsApp, non sono geroglifici che arrivano da Plutone, sono già parte del nostro vocabolario quotidiano. Reagire con un Grrr o con un Wow, anche davanti alla più cruda efferatezza, ci viene più naturale di quello che pensiamo. All’inizio può darci un brivido di imbarazzo ma poi, via! Liberi tutti.

Il problema dell’infantilizzazione degli utenti di Facebook rischia però di portarsi dietro degli effetti collaterali importanti. Far sentire tutti sempre più bambini non ci aiuterà a sconfiggere il bullismo, il linguaggio violento e il razzismo che invadono sempre di più i nostri scambi sui social network. La sociologa delle nuove tecnologie Sherry Turkle nel suo ultimo libro Reclaiming conversation parla, per esempio, di una lenta perdita dell’empatia da parte degli utenti più giovani di social network e di app. Insomma, più siamo incoraggiati a parlare come bambini, a pensare come bambini, più vivremo la nostra vita social come un parco giochi, più difficilmente diventeremo padroni delle nostre azioni e responsabili delle nostre opinioni.

Rimango convinto che i tasti reazione (e gli sticker e gli emoji) siano divertenti e, spesso, anche intelligenti. Ma penso anche che mai come oggi sia responsabilità di tutti essere informati e vigilare che la nostra vita sui social non si trasformi in una società di bambini-tiranni come nel Signore delle mosche.

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