07 dicembre 2020 13:21

Nel 1983 nel Regno Unito uscivano due album che definivano la direzione modernista che avrebbe preso il synth pop britannico: Sweet dreams (are made of this) degli Eurythmics e Construction time again dei Depeche Mode. Entrambi i gruppi usavano l’elettronica per staccarsi nettamente dal decennio precedente, aiutati in questo dal punk che aveva cercato di fare tabula rasa di tutto. Gli Eurythmics immaginavano una Motown elettronica in cui i borborigmi dei synth accompagnavano la voce soul di Annie Lennox su testi che parlavano di sadomasochismo, ossessione e sottomissione. I Depeche Mode di Construction time again invece evocavano un’estetica postindustriale e totalitaria, molto kraftwerkiana e con vaghe istanze ambientaliste. Sia gli Eurythmics sia i Depeche Mode proiettavano il loro diverso immaginario pop nel futuro per dare forma ai fantasmi dei primi anni ottanta.

Nel 1983 in Italia invece usciva Tango dei Matia Bazar, un album synth pop che usava l’elettronica in modo decisamente postmoderno. I genovesi Matia Bazar avevano radici ben salde nel cantautorato italiano e nel progressive rock degli anni settanta, radici che non avevano nessuna intenzione di recidere. Come tutti gli album che contengono una canzone molto famosa, Tango ha rischiato di esserne fagocitato. Vacanze romane, premio della critica al Festival di Sanremo del 1983, era una canzone che univa diverse generazioni perché, con sensibilità contemporanea, era capace di evocare il piccolo mondo antico dei “cantanti della radio” degli anni trenta e quaranta.

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Quell’anno Sanremo lo vinse Tiziana Rivale con l’insipida Sarà quel che sarà, ma i Matia Bazar avevano creato qualcosa di molto più duraturo: avevano trovato una via postmoderna al synth pop.

Vacanze romane è un pezzo retrofuturista in cui l’estetica fané dei telefoni bianchi viene rievocata da un’elettronica sottile che più che aprire al futuro fa pensare a una smagliatura spaziotemporale. La voce di soprano leggero di Antonella Ruggiero ricorda la vocalità di artiste degli anni trenta come Nuccia Natali o Lina Pagliughi, la cantante lirica che doppiò Biancaneve, uscito in Italia nel 1938. Voci intonatissime, tecnicamente impeccabili, capaci di esprimere malinconia e sensualità attraverso la ricezione disturbata di una vecchia radio a fusibili o tra i fruscii di un 78 giri. Ruggiero, con il suo abito di taglio anni quaranta di Valentino che, con le spalline squadrate e la vita sottilissima, richiamava anche i dettami della moda anni ottanta, era sul palco dell’Ariston una sciantosa d’altri tempi: ologramma tremolante di un’Italia dimenticata. E poi c’era quella canzone che parlava di Roma con malinconica dolcezza.

A 13 anni io non riuscivo a cogliere i riferimenti all’operetta: per me il “paese che non ha più campanelli” era uno strano posto in cui dai condomini sparivano tutti i citofoni e i “Lungotevere in festa” non l’immaginavo; da buon romano per me il Lungotevere era un groviglio di auto incolonnate da cui ogni tanto potevano fare cucù castel Sant’Angelo o la Sinagoga. La Roma evocata dai Matia Bazar è una cartolina sbiadita, un souvenir un po’ kitsch sopra un centrino ingiallito e la modernità dell’arrangiamento elettronico non fa che rendere questa visione ancora più lontana dall’Italia iperattiva dei primi anni ottanta.

La bellezza di Vacanze romane rischia di oscurare il resto dell’album che, riascoltato oggi, stupisce per varietà di registri e di colori. Elettrochoc è uno sghembo pezzo pop funk che ricorda i migliori Talking Heads e che oggi piacerebbe molto agli Hot Chip. Nel canale YouTube di Mauro Sabbione, tastierista e artefice del suono di Tango, ce n’è una performance con Enzo Jannacci, a metà strada tra il Cabaret Voltaire e Mister Fantasy di Carlo Massarini.

E poi c’è Il video sono io, un altro squarcio di retrofuturo: un 45 giri da juke-box spaziale che parla della smaterializzazione dell’ io tra i pixel dell’immagine video. Non è un caso che Videodrome di David Cronenberg, un classico dell’horror in cui l’immagine video si faceva carne, uscisse proprio nel 1983.

Tango è un album dalla paletta cromatica ricchissima che cambia continuamente registro: ci sono orientalismi e battiatismi (Palestina), fantasie latine sensuali e demodé (Tango nel fango) e cold wave minimalista (Intellighenzia). Il gioco di specchi tra passato e futuro, tra nostalgia e ironia, tra sovraccarico kitsch e asciutto minimalismo è la vera forza di questo album che mostrava una via italiana, e assolutamente originale, al pop elettronico.

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