26 luglio 2021 12:15

Charles Ray Wiggins (Oakland, California 1966) ha 18 anni quando fa un’audizione come bassista per la band di Sheila E. Mentre aspetta il suo turno s’inventa il nome d’arte di Raphael. Giorni dopo lo richiamano per dirgli che ha avuto il posto, ma non ricorda neanche di aver dato quel nome. Tempo poche settimane e il giovane musicista è già al seguito di Sheila E, che apre i concerti del Parade tour di Prince in Europa e in Giappone. Suonare tutte le sere con Prince e Sheila E è un battesimo di fuoco, Saadiq oggi dice che quella è stata la sua università.

Raphael aggiunge il cognome Saadiq (“uomo di parola” in arabo) al suo nome d’arte diversi anni dopo e diventa noto come parte del trio rnb Tony! Toni! Toné!, una boyband di grande successo negli Stati Uniti che ripropone le armonie dei gruppi vocali degli anni sessanta in chiave funk e hip hop.

Esaurita l’esperienza di Tony! Toni! Toné!, Raphael Saadiq s’impone come autore e produttore, e diventa un punto di riferimento per l’intera scena del cosiddetto nu soul, il nuovo soul degli anni novanta. Scrive e produce praticamente per tutti: da Whitney Houston a Mary J. Blige, dalle Tlc alle En Vogue, da Erykah Badu a Jill Scott. Come autore, arrangiatore e produttore, Saadiq ha un tocco magico: riesce a essere sempre aggiornato ma allo stesso tempo fuori dalle mode. Fine, un pezzo che scrive e produce per Whitney Houston nel 2001, è un esempio di questa sensibilità. Lo scheletro è quello di un pezzo funk degli anni settanta (tipo As di Stevie Wonder) ma dentro ci sono tutto il miele, la sensualità e la consapevolezza commerciale dell’rnb anni novanta. La stessa Houston, non sempre interprete sobria e asciutta, la canta senza sbavature: asseconda il groove e armonizza con i cori, sempre precisa come un orologio. Fine, come tante altre cose scritte e prodotte da Raphael Saadiq, ha tutte le caratteristiche di un’auto d’epoca pur essendo fresca di fabbrica, con ancora la plastica sui sedili di pelle.

Quando Saadiq arriva a produrre, nel 2011, il suo album Stone rollin’ ha già meditato a lungo sui concetti di rétro e di classico: il suo primo disco solista, del 2002, si chiama Instant vintage (un titolo che è già un programma); il secondo, Ray Ray, è un pastiche anni settanta ispirato alle colonne sonore dei film blaxploitation; e The way I see it (2008) è un tentativo (per lo più riuscito) di clonare in laboratorio il suono della Motown degli anni sessanta.

Stone rollin’ è dunque il punto d’arrivo di un lungo processo di rarefazione e di sublimazione. Raphael Saadiq vuole arrivare alle radici nere della musica popolare americana, ma vuole anche divertirsi e divertire: togliersi la giacchetta da produttore e arrangiatore, imbracciare la chitarra e mettere su un grande spettacolo.

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“Volevo scrivere canzoni che dessero soddisfazione al mio basso e alla mia chitarra”, ha detto in un’intervista del 2011 riferendosi ai dieci brani che compongono Stone rollin’, e appena attacca la trascinante Heart attack si capisce perfettamente cosa intende. Il suono è vintage, volutamente sporco e granuloso, ma il pezzo è di adesso. Sembra troppe cose tutte insieme: dentro c’è Chuck Berry, c’è Little Richard, c’è quel momento della storia della musica americana in cui blues e gospel si elettrificano, si fondono e diventano un’altra cosa. Eppure non è modernariato, è un pezzo pop contemporaneo, è qui e ora.

Ogni pezzo di questo disco potrebbe essere un singolo, un 45 giri dimenticato dalla storia, magari incastrato in qualche polveroso juke box e ripescato da un archeologo del soul. Saadiq danza come un funambolo sulla linea invisibile che divide la nostalgia rétro dal vero classico: ogni volta che credete di sentire qualcosa di Stevie Wonder, il suono cambia e diventa Sly Stone, diventa Prince, diventa gli Isley Brothers. La voce e lo stile sono però quelli di un fuoriclasse del ventunesimo secolo.

Stone rollin’ è anche un capolavoro di quell’arte dimenticata che è il sequencing: ovvero l’ordine da dare alle canzoni all’interno di un album. Da Heart attack, puro rock’n’roll delle origini, si arriva gradualmente all’ultimo pezzo, The answer, che, come scriveva il critico Jim DeRogatis, suona come “i Moody Blues che miracolosamente trovano il funk”.

Stone rollin’ oltre che un esercizio sul concetto di soul classico è una riflessione sulle origini nere del rock’n’roll. Volendo si può leggere come una fantasia retrofuturista: come si sarebbe sviluppato il rock’n’roll se non fosse stato, a un certo punto, “confiscato” dai bianchi?

Raphael Saadiq
Stone rollin’
Columbia, 2011

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