Quando è morta, il 25 agosto 2001 in un incidente aereo, Aaliyah aveva 22 anni ed era pronta a diventare la più grande popstar del mondo. La ricordo sulla copertina della rivista inglese i-D, bella e fascinosa come una Diana Ross del nuovo millennio. L’articolo, accompagnato da memorabili foto di Matt Jones, parlava di lei come dell’artista afroamericana che era pronta a conquistare non solo le classifiche ma anche i botteghini cinematografici: era appena uscito un suo nuovo album, stava ultimando le riprese di un film di vampiri, La regina dei dannati, e il suo look, che lei definiva “street but sweet”, veniva orecchiato e scopiazzato ovunque. Peccato che quando quella copertina uscì Aaliyah era già morta.
Il terzo e ultimo album di Aaliyah, intitolato Aaliyah e noto anche come “the red album”, è uscito nel luglio 2001 e la fotografa nel suo momento di grazia e allo stesso tempo la congela nel tempo. Era un album pieno di promesse, anticipatore di mille possibili evoluzioni e invece è diventato, artisticamente, la sua tomba.
Aaliyah era molto giovane e molto ambiziosa. Come cantante non veniva dalla tradizione gospel e quindi non ha mai fatto leva sul volume. Non era una belter, una cantante di forza, ma era un’interprete morbida, dotata di una voce piccola, ma chiara e precisa; una Diana Ross o una Minnie Riperton più che una Beyoncé o una Whitney Houston.
Aaliyah comincia a cantare molto presto e troppo presto entra nell’industria dell’intrattenimento, grazie allo zio Barry Hankerson che avendone intuito il potenziale, costruisce una piccola industria intorno a lei. Aaliyah ha solo 11 anni quando accompagna sul palco Gladys Knight, grande star della Motown ed ex moglie dello zio, e ne ha appena 12 quando viene messa sotto contratto dalla Jive Records e dalla Blackground Records di proprietà dello stesso Hankerson.
È proprio lo zio che la affida, ancora bambina, a R Kelly, già molto noto come geniale autore e produttore e già chiacchierato come pericoloso predatore sessuale. A soli 13 anni Aaliyah lavora al suo primo album con R Kelly che si attacca morbosamente a lei, la manipola e la sessualizza in una maniera che oggi appare agghiacciante ma che nel 1994 sembrava a tutti normale. Anche alla sua famiglia.
Come tante altre star bambine prima di lei, Aaliyah portava sulle spalle un fardello pesante
Aaliyah aveva swag, aveva le mosse giuste, cantava come una diva consumata e, nei video, appariva insieme a R Kelly vestita come lui. Erano solo allieva e maestro? Erano come fratello e sorella? Erano molto, molto amici? Il pubblico era all’oscuro che tra i due ci fosse una relazione basata sul plagio (secondo la rivista Vibe si sarebbero perfino sposati usando documenti falsi) e vedeva solo una grande complicità, una bella intesa artistica. Anni dopo, nel 2016, il critico Jeff Sledge ha scritto su Vibe che l’album di debutto di Aaliyah, che per altro s’intitolava Age ain’t nothing but a number (”l’età non è che un numero”), dava la sensazione di “ascoltare un intero album di R Kelly cantato da una bambina”. R Kelly ha proseguito la sua carriera discografica e la sua attività parallela di predatore seriale di minorenni, finché il 27 settembre del 2021 è stato condannato per sfruttamento, rapimento e abuso di minori.
Come tante altre star bambine prima di lei, Aaliyah portava sulle spalle un fardello pesante. Tornano in mente le parole della critica afroamericana Margo Jefferson: “Quando si tratta di ruoli di genere, le star bambine giocano una partita doppia”, scrive Jefferson nel suo libro Su Michael Jackson. “Sono il maschio della famiglia: i procacciatori di cibo, il pilastro economico. Però sono anche la femmina: l’oggetto estetico e sessuale che deve rimanere giovane e attraente”. Aaliyah era una macchina per fare soldi per la sua famiglia, per suo zio in particolare ma anche per molte delle persone che le gravitavano intorno. Era il maschio di casa perché portava i soldi, ma era anche la vergine da dare in sacrificio al drago. E il drago non era solo R Kelly, ma un’intera filiera industriale che l’ha formata, usata e, alla fine, uccisa.
L’unica biografia degna di nota pubblicata su Aaliyah s’intitola Baby girl: better known as Aaliyah e l’ha scritta la giornalista statunitense Kathy Iandoli. Non è un buon libro dal punto di vista della critica musicale ma è un ottimo libro dal punto di vista documentario. Iandoli ricostruisce le ultime ore di Aaliyah e ci parla di una ragazzina sfinita, fatta volare da Miami alle Bahamas per girare un video e fatta tornare negli Stati Uniti in tutta fretta, a riprese finite, per registrare in studio della nuova musica.
All’epoca fu scritto che Aaliyah era morta da diva capricciosa: che aveva voluto tutto il suo seguito a bordo di un piccolo aereo e che fondamentalmente era morta per sovraccarico di bagaglio. In effetti il Cessna 402-B su cui doveva volare per poco più di un’ora e mezza dalle isole Abaco, dove era stato girato il video di Rock the boat, a Miami era minuscolo ed era sovraccarico di bagagli, attrezzatura e passeggeri (con lei sono morte altre otto persone). Quello che all’epoca nessuno sapeva, e che è stato ricostruito in anni di processi, è che Aaliyah non voleva salire su quell’aereo. Era terrorizzata all’idea di volare con tutte quelle persone e tutto quel bagaglio. Lei e tutta la sua troupe di assistenti, discografici e parrucchieri sono rimasti ore sulla pista senza salire sul mezzo. E alla fine Aaliyah è stata caricata a bordo qualche ora dopo in stato d’incoscienza. “Aveva mal di testa e ha preso un pasticca per dormire”, è stata la spiegazione data dal suo management. L’aereo è riuscito appena a decollare per schiantarsi pochi minuti dopo e prendere fuoco uccidendo tutti i passeggeri. Le indagini e i processi (tutti ricostruiti fin troppo nei dettagli nel libro di Kathy Iandoli) sono stati lunghi e laboriosi ma quello che emerge è semplice: Aaliyah doveva essere a Miami in serata per lavorare ed è stata fatta volare su un mezzo inadeguato, pilotato da un uomo su cui sono state trovate nell’autopsia tracce di cocaina. Per risparmiare? Per fare in fretta? Per faciloneria? Per dolo? Questo possono saperlo solo i manager di Aaliyah che in buona parte però erano anche la sua famiglia.
Il fatto che Aaliyah fosse morta solo un paio di settimane prima dell’attentato al World trade center non ha fatto che alimentare una narrazione distorta e in qualche modo consolatoria della sua morte: il mondo è andato a fuoco e Aalyiah è un angelo volato in cielo troppo presto. Fine della storia. Perfino il funerale non fu pagato dalla famiglia, che pretendeva che fosse rimborsato dalla Virgin, etichetta discografica della defunta, tanto che alla fine a sobbarcarsi tutte le spese è stato, con estrema discrezione, il cantante Maxwell.
L’album rosso di Aaliyah non è il suo testamento perché un’artista ventiduenne con una promettente carriera davanti non pensa certo a fare testamento. Eppure ha per forza qualcosa di definitivo: la fissa in un momento preciso della sua storia, quello del grande salto verso il successo vero. È come il fermo immagine di un momento perfetto. In Aaliyah le stelle si erano allineate: grandi produttori (Timbaland, Bud’da, Eric Seats, J. Dub, Rapture e Missy Elliott), grandi pezzi (More than a woman, We need a resolution, Loose rap, Rock the boat) e una giovane artista al massimo delle sue potenzialità, capace di dare voce e carne a visioni musicali diverse, anche molto coraggiose, con naturalezza e carisma.
Quando si parla di produzioni pop spesso si è portati pensare che il cantante, in particolare se donna, sia la parte meno importante dell’equazione. Tutto il merito del successo di certi personaggi sembra essere degli autori, dei produttori, dei videomaker, degli stylist e dei manager. Eppure la forza di un album come Aaliyah è tutto nella presenza, anche spirituale, della cantante. In questi pezzi, soprattutto in quelli prodotti da Timbaland, suo vecchio e fidato collaboratore da cui si stava allontanando, c’è una fusione perfetta tra produzione, beat e personalità della cantante. Senza Aaliyah, senza il suo stile, senza la sua voce delicata ma sicura, senza la sua personalità in evoluzione da bambina prodigio ad artista matura, Timbaland non avrebbe potuto scrivere We need a resolution o More than a woman. Questi pezzi sono alta sartoria, sono splendidi abiti fatti su misura solo per lei. Soprattutto sono pezzi in cui la ex bambina prodigio, la ex ninfetta, la ex vittima, cominciava a trovare una sua voce, cominciava a trovare quella che nella teoria femminista viene chiamata agency, ovvero capacità (e indipendenza) di azione.
Try again è il pezzo più vecchio dell’album, aggiunto come bonus track in alcune edizioni. Timbaland lo aveva composto insieme a Static Major e prodotto per Aaliyah nel 1999. È un classico brano rnb nella linea vocale e nelle armonizzazioni, però incorpora molti elementi di elettronica e dance. Il ritornello, in particolare, è campionato, manipolato e ripetuto ipnoticamente in loop. Una soluzione radicale che una star di quegli anni, una Whitney Houston, una Mariah Carey o una Toni Braxton, non avrebbe mai accettato. In un remix dance, forse, ma non in un edit per le radio. Aaliyah invece era giovane e amava rischiare: i produttori con lei sentivano di poter osare e lei era proiettata nel futuro. Un futuro che purtroppo non avrebbe mai visto.
Aaliyah
Aaliyah
Virgin, 2001
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