16 novembre 2021 12:24

Nel 2006 uscì un romanzo che s’intitolava E poi siamo arrivati alla fine. Era il debutto dello scrittore statunitense Joshua Ferris e in Italia uscì per la casa editrice Neri Pozza. La storia era ambientata in un’agenzia pubblicitaria di Chicago al momento dello scoppio della bolla di internet della fine degli anni novanta ed era un romanzo con una caratteristica peculiare: era tutto alla prima persona plurale. Il rapido declino di un’azienda in cui si lavorava poco ma si guadagnava molto e si spettegolava ancora di più, veniva raccontato da un impersonale e straniante “noi”. Un noi che definirei “aziendale”, ancora molto in voga in certi ambienti lavorativi. Una prima persona plurale che dissolve l’io in favore di un’intangibile pluralità che cancella ogni desiderio, ogni opinione e ogni responsabilità diretta.

Quando, quasi dieci anni dopo, ho ascoltato Working girl, il terzo album della cantante pop, autrice e produttrice britannica Little Boots, ho ripensato a quel libro e a quel “noi aziendale”.

Working girl è un concept album synth pop, apparentemente leggerissimo e vaporoso, sulla vita di una giovane donna che lavora in un ufficio. L’ambientazione potrebbe essere Londra, New York, Milano o qualunque altra città globalizzata e ipercompetitiva. Il titolo dell’album riprende volutamente quello originale di Una donna in carriera, una commedia di Mike Nichols del 1988 con Melanie Griffith, Sigourney Weaver e Harrison Ford. Nel film una segretaria ambiziosa, capace ma relegata al suo ruolo subalterno (Griffith) riesce a farsi passare per il suo capo (Weaver) e si accaparra un ottimo affare oltre che il fidanzato della sua superiore (Ford). Praticamente la favola di Cenerentola in cui la parte della fatina buona spetta al capitalismo yuppie degli anni ottanta.

In Working girl di Little Boots non ci sono fatine buone, anche se il paesaggio sonoro in cui sceglie di ambientare la sua storia è un synth pop che potrebbe ricordare il suono degli anni ottanta di Una donna in carriera. Già dal suo album di esordio, Hands, Little Boots (ovvero Victoria Hesketh, nata a Blackpool, Regno Unito, nel 1984) ha dimostrato di saper padroneggiare i vari generi e sottogeneri di un filone musicale che fioriva proprio negli anni in cui lei nasceva. Se Hands, uscito nel 2009, aveva un difetto era quello di essere troppe cose tutte insieme: Hesketh sembrava indecisa se essere più Goldfrapp, più Kylie Minogue o più Sophie Ellis-Bextor e nel dubbio le provava (in maniera anche molto convincente) tutte.

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Working girl comincia con una vecchia segreteria telefonica, un altro relitto degli anni ottanta. Mentre in sottofondo suona una sua vecchia hit, Remedy, la voce di Little Boots, impassibile e professionale, recita: “Qui è la On Repeat records. Se conoscete l’interno desiderato per favore selezionatelo ora. Altrimenti digitate 1 per il marketing o 2 per la distribuzione”. Ma poi il tono cambia: “Oppure, se non avete di meglio da fare che ascoltare questo messaggio registrato, per favore riagganciate e andatevene. Fate. Succedere. Qualcosa”.

E quello che Little Boots fa succedere in Working girl è una radicale rimessa a fuoco della propria idea di musica pop. Anzitutto decide di essere meno eclettica e di muoversi in una zona più circoscritta, diciamo tra i Saint Etienne e Robyn. Ma soprattutto capisce che gli anni ottanta non vanno citati in modo letterale ma vanno suggeriti in modo più sottile. Un pezzo come Get things done è vicino, nello spirito ma non nel suono, a certe canzoni dei Pet Shop Boys (penso a Opportunities e S.H.O.P.P.I.N.G) che, usando gli stilemi della dance, denunciavano il consumismo e l’avidità degli anni ottanta. Ma più che con il consumismo Little Boots sembra avercela con il soluzionismo tecnologico dell’epoca in cui c’è un app per tutto e una via di uscita “smart” per ogni problema.

In Business pleasure Little Boots racconta la storia di una giovane donna che, al secondo giorno di lavoro, si trova davanti al dilemma se finire o no a letto con il suo superiore. La protagonista della canzone sa di essere perfettamente in grado di fare bene il proprio lavoro e allora, si chiede, “perché anche solo provare a dimostrarsi forti sembra così sbagliato?”.

Nel bel mezzo dell’album poi si risente la solita voce preregistrata: “Siamo spiacenti ma tutti i nostri operatori sono al momento impegnati. Al momento siete il cliente numero 2.048. Prego rimanete in linea per non perdere la priorità acquisita”.

Working girl non è solo un album ironico e tagliente, c’è spazio anche per esprimere fragilità e offrire solidarietà. Ed è qui che Little Boots si avvicina alla sensibilità molto contemporanea di Robyn. Help too è uno dei pezzi più riusciti dell’album: in un raro momento di intimità questa “working girl” abbandona la sua asettica tenuta business smart per lasciarsi andare a un abbraccio: “Chiamami quando sei a pezzi”, canta con la sua voce di soprano leggerissimo, “e io ti rimetterò insieme”.

L’album si chiude con un pezzo che, come le migliori canzoni pop, è sia allegro sia malinconico. La protagonista di Better in the morning è infreddolita, si abbottona bene il cappotto e cammina verso casa dopo una lunga notte fuori di cui ha un ricordo confuso. Ha rotto con qualcuno o qualcosa. Si sta lasciando una situazione finita alle spalle mentre le stelle spariscono una a una per far spazio a un nuovo giorno. È forse la prima canzone di Working girl in cui la protagonista sembra sapere esattamente cosa stia facendo. Ha lasciato un uomo? Ha chiuso con un lavoro che non faceva per lei? In ogni caso ha smesso di dire “noi” per dire finalmente “io” e girare pagina.

Little Boots
Working girl
On Repeat, 2015

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